Si chiama Nebbione (anche se in etichetta non si può scrivere…) ed è un progetto che racconta di come del nebbiolo non si butti via nulla, nemmeno in fase di diraspatura. Ma racconta anche come il nebbiolo sia un’uva multiforme, capace di esprimere potenzialità in versioni che non sembrerebbero proprie. Eppure già nell’Ottocento il presidente Usa Thomas Jefferson parlava del nebbiolo come di un apprezzabile sparkling wine italiano.

Alla base del progetto Nebbione c’è però l’intuizione di un enologo: Sergio Molino che capisce le potenzialità del nebbiolo come metodo classico. Non di tutta l’uva però, ma di quella punta del grappolo che solitamente viene scartata in vigna per rafforzare l’uva che sarà poi vinificata in Barolo e Gattinara. Si tratta quindi di un’opera di recupero degli scarti? Non proprio: in realtà è un’opera meticolosa di selezione in vigneto. Non tutte le punte vanno bene per la vinificazione, c’è bisogno di fare molta attenzione al grado corretto di maturazione (solitamente un mese prima della vendemmia per il rosso). Per ottenere una quantità accettabile di uve è necessario un lungo lavoro. A questo si assommano le difficoltà incontrate da aziende che nel DNA hanno la produzione di grandi rossi e molto spesso sono digiune nel metodo classico.
Impresa difficile, tanti risultati deludenti fino ad arrivare a questo incoraggiante 2010. Da qui la decisione di fare fronte comune (rara avis!) tra le aziende interessate a questa idea: la creazione di un marchio e di un conseguente disciplinare. Rigido: vinificazione in acciaio, iperossigenazione del mosto, fermentazione a temperatura controllata con lieviti selezionati, affinamento parte in acciaio e parte in legno, sosta “sur lies” di almeno 40 mesi.

Mercoledì 13 maggio l’assaggio in anteprima per la stampa di settore, alla quale abbiamo partecipato, di un vino che sarà commercializzato solo a partire da ottobre. Presenti i sei campioni delle sei aziende coinvolte: Cascina Ballarin, Franco Conterno, La Kiuva, Reverdito, Rivetto, Travaglini. Caratteristiche comuni: nessuna o quasi. Perché nonostante il protocollo, nonostante i tempi di raccolta, nonostante le uve, ancora una volta a vincere è stato il terroir. Non solo tra zone vitivinicole differenti ma tra cru della stessa zona. Cambiano i colori, i profumi, in un livello comunque alto a tutti gli assaggi.

Tra queste anteprime, colpiscono La Punta dei tre ciabot di Cascina Ballarin, bollicina fine, profumi agrumati, spiccata salinità che evoca l’ostrica nel retrogusto. Il più evoluto Extra Brut di Reverdito con il suo colore tendente all’oro, buona struttura e fragranze di pane (sorprende e convince l’abbinamento con la fontina valdostana). E ancora l’eleganza del Kaskal (il nome è mesopotamico) di Rivetto e l’interessante Rosé de La Kiuva valdostana fino al campione che arriva da Gattinara dove terreni rocciosi e i venti del Monte Rosa conducono a un vino, il Nebulè di Travaglini, che ha mineralità e una finezza nei profumi che ricorda - diciamolo sottovoce - il pinot nero.

Siamo arrivati? Non ancora. Questi campioni cambieranno già nei prossimi mesi, a ottobre probabilmente li vedremo in una ulteriore evoluzione e alla prova del mercato dove si collocheranno, probabilmente, in una fascia tra i 35 e i 40 euro. L’obiettivo - dichiarato - ritagliarsi una nicchia in un mercato in grande espansione. E non è escluso che un altro presidente americano, in un prossimo futuro, possa di nuovo lodare uno sparkling wine da uve nebbiolo.

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