A colloquio con Paolo Massobrio di Dario Benetti

D. La Laudato sì, l’enciclica di Papa Francesco sull’ecologia ha suscitato interesse ma anche molte polemiche. Quali sono, a tuo parere, gli aspetti più importanti di questo documento?
Laudato Si rimane un capolavoro, che è andato al cuore dei problemi, anche i più ostili che non si osa quasi mai affrontare. Ad esempio quelli relativi agli organismi geneticamente modificati. Ma qui è bene sottolineare l’atteggiamento di Francesco I, che di fatto ha apparecchiato un tavolo di discussione, con i pro e i contro, perché a tutti preme innanzitutto capire quale sia e se ci sia la visione sul futuro della terra, che è auspicabile emerga, di fronte alle soluzioni frettolose di chi magari pensa alla gestione di un nuovo potere legato alla nutrizione. A me ha colpito la visione unitaria del problema, il respiro ampio di ogni singola problematica, accanto alla quale più volte, quasi con insistenza, è stata evocata la parola bellezza. E ha scritto: “Se non parliamo più il linguaggio della fraternità e della bellezza nella nostra relazione con il mondo, i nostri atteggiamenti saranno quelli del dominatore, del consumatore, o del mero sfruttatore delle risorse naturali, incapace di porre un limite ai suoi interessi immediati”. Poi mi ha colpito il suo riferimento alla madre terra e al Dio padre, uscendo da un equivoco panteista che ispira tanto attivismo ecologista. Mi ha colpito l'accenno a San Giuseppe lavoratore e a Gesù che di fatto faceva il falegname e poi a quel passaggio profetico della storia, quando San Benedetto detta una regola dove la contemplazione e il lavoro sono finalmente uniti. Se qualcuno poi ha visto in questa enciclica un tentativo di ritorno al passato, in realtà è un miope: non c’è enunciazione più moderna e attuale, ancor più nella direzione di un generalizzato sentire delle nuove generazioni, che vuole pulizia, verità. Ma l’enciclica ha dentro soprattutto l’annuncio cristiano, molto chiaro e concreto: “Le creature di questo mondo non possono essere considerate un bene senza un proprietario”, la cui cifra, appunto, è riscontrabile nel dono dell’infinitesima cosa che abita la terra, come insegnava San Francesco, ispiratore del titolo. Intervenendo un mese prima dell’uscita dell’Encicilica, ai lavori di Expo papa Francesco aveva poi detto che la terra è un prestito dei nostri figli. E poi mi ha colpito il titolo che suona come un monito, contro la frammentazione del sapere, che poi conduce al relativismo pratico, alla non conoscenza. Questa enciclica abbraccia proprio tutto: anche il sapore del pane, anche quello di un buon vino.

D. Un pregio di EXPO è stato quello di riportare al centro dell’attenzione il problema dell’alimentazione a livello planetario. E’ chiaro che non è solo un problema di quantità (soddisfare il bisogno di una popolazione mondiale in continua crescita) ma anche di qualità e di conoscenza della filiera alimentare…
Sì l’Expo è stato un momento innanzitutto di conoscenza che ha dovuto pagare lo scotto della spettacolarizzazione dell’evento, che un po’ ha oscurato tanti dei temi affrontati. Io credo che due siano stati i temi affascinanti dell’Expo. Il primo quello della potenza del limite, che obbliga a cercare soluzioni adeguate in qualunque situazione del mondo ci si trovi. Il secondo tema è quello degli stili di vita, che è stato sviscerato in tanti modi, ponendo l’attenzione su quello che è l’equilibrio alimentare. Che non può mai essere imposizione se si ha a che fare con i cosiddetti paesi poveri, ma neppure edonismo se si pensa ai paesi ricchi dove il paradosso rimane l’aumento delle patologie legate ad un’errata alimentazione.

D. Da qualche anno il tema della cucina e della gastronomia è tornato di attualità, anche grazie al successo di molte trasmissioni televisive. E’ solo un fenomeno passeggero?
Dal mio osservatorio di 32 anni di attività giornalistica nel settore non posso dire che sia un fenomeno passeggero. L’esposizione mediatica è solo la punta di un iceberg, ma la verità è che il cibo è qualcosa che ci interpella più volte al giorno, fa parte della nostra vita, della stessa vita. Per cui interessa. E’ curioso che l’apice del successo delle trasmissioni televisive legate alle ricette ci sia stato negli anni della crisi. E la spiegazione me l’ha data uno scrittore, Luca Doninelli, quando ha detto che in fondo la ricetta è qualcosa che riesce, rappresenta un mondo perfetto. Dove poche cose riescono come vorremmo, la ricetta di un piatto invece riesce, puoi metterci le mani in pasta e averne una soddisfazione. Da questo punto di vista non vedo spegnersi la bolla mediatica e neppure l’attenzione del pubblico: gli allegati ai giornali che vanno di più sono proprio quelli che trattano di cibo. E così certe trasmissioni. Un motivo c’è.

D. Quando si parla del settore alimentare è facile che si accenda subito la discussione sulle reali possibilità di mantenere un adeguato livello qualitativo della produzione industriale. E’ possibile secondo te conciliare le due cose?
Sì certo che è possibile. Il problema è la mentalità industriale che poi smette di mettere al primo posto la qualità in quanto tale e si pone il problema del profitto. Per cui si va ad incidere sui costi variabili delle materie prime, trovando un compromesso. Ma la qualità non è mai frutto di un compromesso, è piuttosto la sublimazione di un prodotto della terra. Negli ultimi anni c’è una curiosa rincorsa dell’’industria ai modelli artigianali. Prendiamo ad esempio la birra. La birra dei grandi marchi era arrivata ad un livello di impoverimento organolettico incredibile, tant’è che quando è scoppiato il fenomeno di birrifici artigianali, la qualità di questi ha sbugiardato l’appiattimento degli altri. Al che l’industria è corsa ai ripari, facendo nuovi marchi, proponendo birre con materie prime del territorio, insomma andando sul terreno proprio dei birrifici artigianali. E così è stato con il cioccolato, con il caffè, con la pasta. Oggi la parola cardine è diventata distinzione. Non ci sono più prodotti commodity, ma ognuno vuole fare un suo racconto

D. OGM e agricoltura: cosa ne pensi?
Penso che sia ancora un dibattito fra sordi. Ogni tanto questo dibattito si accende, poi torna a spegnersi. Gli Ogm sono potenzialmente nemici della biodiversità e in prospettiva possono disegnare un generale appiattimento. Per tornare alla domanda iniziale, non è un problema di quantità, ma di conoscenza. Non si può dire che con gli Ogm sfami il mondo, quando magari togli un prodotto che invece era adatto al fisico di quella popolazione, che rischia, in assenza, di maturare nuove patologie. Sono cose accadute, per cui bisogna stare attenti a semplificare le cose, davanti a un Creatore che ha voluto invece la complicazione. Mi spiego meglio. Perché non c’è un solo cibo, una pillola, per sfamare tutti gli uomini della terra? Sarebbe tutto più semplice. Invece ci sono le biodiversità, in ogni angolo del Pianeta, e l’uomo si alimenta in modo vario, seguendo le stagioni. Io credo che si debba assecondare questo aspetto, piuttosto che piegare tutto a un’ipotesi dirigista. Se nel mondo c’è il gusto un motivo certamente c’è. Perché si vuole appiattire il gust? In nome di quale strategia? In molti casi gli ogm sono stati rigettati; in Italia, addirittura sembrano servire poco. Poi, in verità bisogna conoscere a fondo i problemi. Per cui tutto ciò che è ricerca merita rispetto, attenzione, e non chiusura a priori. Ma dopo la ricerca, si aprono altri problemi ancora: di carattere economico, di potere, di prospettiva. Quale mondo e in mano a chi lo vogliamo lasciare? Davvero le chiavi dell’alimentazione, attraverso le sementi, devono passare dai popoli, alle multinazionali? Pericoloso, molto pericoloso.

D. Golosaria e Club di Papillon sono due delle principali opere che il tuo lavoro ha creato e condotto in questi anni: ce ne puoi sintetizzare la storia e le caratteristiche?
Il Club di Papillon è un movimento di consumatori nato intorno al mio giornale, che si chiama appunto Papillon. Sono 50 gruppi in tutta Italia che sviluppano innanzitutto una conoscenza, per capire cos’è il fenomeno della qualità e del gusto, quali implicazioni hanno in una comunità. Golosaria, che prende il nome dal mio libro IlGoloisario, è la rappresentazione di queste scoperte, la messa su di un piedistallo di tutti quei protagonisti della qualità che incontriamo giorno per giorno. Farli conoscere significa dire che è possibile una qualità che non è più nicchia, ma fattore diffuso. Ecco questo fattore diffuso a noi interessa fare conoscere il più possibile. Da qui nasce Golosaria.

D. Una iniziativa che hai promosso e che ha coinvolte molte realtà locali è stato quello delle De.co. Puoi spiegare di cosa si tratta e quali sono le finalità di questa proposta?
Le De.Co. stanno per denominazioni comunali. Sono i tratti identitari legati al cibo delle varie comunità, dei Comuni. In realtà le De.Co. non sono dei marchi e non tutelano nulla, sono però la chiamata, con nome e cognome, di ciò che c’è in un Comune: un prodotto, che si è adattato lì, un piatto, che fa parte della storia di una comunità, un sapere, una sagra centenaria. Tutti fattori che hanno caratterizzato le generazioni che ci hanno preceduto e che rischiano di perdersi. Il Comune fa una semplice delibera per riconoscerli in un dato momento storico e per dire che si può scommettere su quel prodotto identitario, magari cancellato da logiche commerciali. Oppure su un piatto dietro al quale, di solito, c’è una storia fantastica, di genio e povertà. E il ricettario della ristorazione locale rinasce, mentre stava per essere omologato alla moda del momento. Oggi è la guancia di maialino cotta a bassa temperatura il piatto più inflazionato. Ma dietro c’è un sistema di vendita di semilavorati che cancella la spesa del ristorante, che appiattisce, magari verso l’alto, una cucina. E non va bene. Le De.Co. invece raccontano una storia di saperi. Io questa battaglia l’ho condivisa con il maestro Luigi Veronelli, ma non avrei mai pensato che le identità fossero viste come il fumo negli occhi. E questo mi ha fatto riflettere. Cosa c’è dietro questo desiderio di annientare le identità territoriali? Possibile che tutto debba essere sacrificato nel nome del commercio, in mano a pochi? Ma non è meglio tenere viva la partecipazione, l’autocoscienza della gente, la ricerca del proprio passato che diventa presente. Oppure è meglio sorbirsi i dettami della pubblicità, e fare per l’eternità gli spettatori delle cose decise da altri? Per il business le identità non vanno certamente bene, anche il business della medicina, che guarda male la nutraceutica, ad esempio.

D. Cosa pensi della produzione alimentare e della gastronomia valtellinese (e marchigiana)?
La gastronomia valtellinese è entusiasmante perché ha mantenuto dei tratti che sono solo suoi. Pochi piatti di questa cucina sono replicabili altrove, e fanno quindi parte di una storia di conservazione e quindi di identità. Per quanto concerne la gastronomia marchigiana il discorso è invece diverso, perché qui si parla al plurale e quindi la pluralità dei paesi, ognuno con una sua storia, che rende ricca la proposta complessiva. Dell’una e dell’altra area mi piace ricordare due salumi. La bresaola della Valtellina ha segnato la storia di un successo. E anche di un appiattimento. Ma ora è arrivato il momento della distinzione, per cui si pala di bresaole. E questa è una cosa molto italiana, perché noi non siamo fatti per l’omologazione. Mai. Nelle Marche c’è invece un prodotto fantastico, il ciauscolo, che quando ha ottenuto l’Igp, ha messo in un angolo i produttori tradizionali, che ora non possono più chiamare con quel nome il loro salame morbido. Non possono perché non hanno voluto omologarsi a un disciplinare concepito non per esaltare le differenze, ma per arrivare a un compromesso. E quindi quelli che facevano il ciauscolo come avevano appreso dalla tradizione sono stati scippati del nome. Pazzesco. Ma in nome del commercio succede anche questo. Ecco, per tornare a noi, diciamo che oggi ci troviamo a fare una sorta di controinformazione, non per dire che piccolo è bello, che sarebbe anacronistico, ma per dire che in certe esperienze che abbiamo incontrato nei vari territori è custodita una tradizione che non è compromesso. Spesso è una qualità ancora attuale oggi, è un racconto, che valorizza un luogo. Diceva De Gaulle che è difficile governare un Paese che ha 246 di formaggi. Figuriamoci l’Italia, che ha altrettanti tipi di salumi, di frutti, di vini. Ma questa è l’Italia, non la si potrà mai piegare con l’omologazione.

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