La nostra amica giapponese Motoko Iwasaki ci racconta come vede il sushi

Per chi, non avendo ancora una buona conoscenza della lingua, voglia comunque fare amicizia con gli Italiani, saper cucinare bene è una bella fortuna. Però, al mio primo arrivo in Piemonte, mi trovai con un problema che non avevo considerato: gli amici mi chiedevano di fare il sushi.

Quello che va di moda in Italia, il cosiddetto “nigiri (impugnato) sushi”, da noi non si fa in casa. In Giappone si dice che, per chi voglia intraprendere la strada da cuoco di sushi, i primi 3 anni si debbano dedicare al perfezionamento della cottura del riso e che poi, per arrivare a una corretta preparazione, ci vogliano altri 8 anni. E, peggio ancora, fino a poco tempo fa, credevano che le donne, avendo la pelle della mano più sottile, trasmettessero il proprio calore corporeo al pesce rovinandone la carne delicata. Così cuoche di sushi non ce n’erano. Tuttavia, quella prima volta, non chiedetemi perché, nella valigia avevo portato, oltre a una buona bottiglia di sakè, wasabi, salsa di soia e persino del riso giapponese di qualità pregiata, il “Kosihikari”.

I nigiri, impugnati per la prima volta in vita mia, erano esteticamente orribili. Ciononostante, non molto tempo dopo, uno dei piemontesi che li mangiò mi prese in moglie. Il giorno del nostro matrimonio ricevetti due giganteschi tonni in regalo da un amico pescivendolo (allora si poteva ancora pescare il tonno rosso del Mediterraneo e non era così costoso. Tutta colpa del sushi!). Alla sposa toccò filettarli personalmente per servire 100 persone. Quando ebbi finito ed entrai nella sala del banchetto, scoprii che gli “amici” non mi avevano lasciato neanche un assaggino del pecorino affinato dall’oste della Tenda Rossa nel suo garage, né una fetta del lardo di Colonnata che avevo acquistato dalla vecchietta della tabaccheria nella piazzetta in cima al paese. Nemmeno un briciolo. Tristemente potei mangiare solo il sushi che avevo cucinato io e che conoscevo anche troppo bene.

Una tappa a metà strada del nostro viaggio di nozze fu a casa di un giornalista, vecchio compagno di università di mio marito: naturalmente, invece di portare il solito pensierino, mi chiese di preparare il sushi. Lasciai il Piemonte portando con me una ventiquattr’ore con il wasabi e gli altri ingredienti ma, questa volta, anche con il mio coltello affilatissimo. È stata l’unica serata in cui ho preparato due volte il sushi, in totale 150 pezzi. Quasi tutti divorati dall’amico e da sua moglie.

Da allora, quando vado a trovare gli amici in Italia, porto sempre questa specie di “Sushi bar in valigetta”. A quei tempi, anche se studiavo l’italiano, potevo seguire la conversazione a tavola solo a tratti. Tutto quello che potevo fare per comunicare il mio affetto era cucinare un piatto del mio paese nativo. Sono passati 15 anni.

Originariamente il sushi era un modo di conservare il pesce sotto sale nel riso fermentato. Man mano, in ogni regione e in ogni città si cominciò a trovare una diversa forma e qualche particolare metodo per gustare il pesce e insaporire il riso; così si differenziarono. Circa duecento anni fa, quando Tokyo veniva ancora chiamata Edo, un cuoco inventò una versione chic, quella che conoscete bene anche voi. Senza toccare troppo, evidenziare la freschezza del pesce e la lieve bontà del riso per dare il massimo della soddisfazione a chi mangia. Questo è il sushi.

Anche a chi inizialmente non piace, se prova una volta e poi un’altra ancora, viene voglia di prenderne un altro pezzo. È un piatto dal fascino abbastanza unico. Sembra semplice, ma farlo richiede una tecnica da cuoco professionista. Non è una cucina da casa. Forse per questo, se chiedete a un giapponese quale sia il suo piatto del cuore, difficilmente nominerà il sushi. Per me ad esempio è il “sanma”, un pesce azzurro, tipico cibo dei pescatori, cucinato semplicemente alla griglia con sale e accompagnato da riso bianco.

Nei primi tempi capitava, quando preparavo una cena di sushi, che ci fosse qualche commensale un po’ schizzinoso e conservatore nel mangiare (devo dire che erano soprattutto le donne). Ci rimanevo male come se avessero rifiutato un po’ di me stessa. Oggi sono proprio le amiche italiane che vogliono imparare a tagliare il pesce per fare il sushi. Se dicono che la musica unisce il mondo, con una cucina buona ci conosceremo meglio.

Ricordo ancora gli spaghetti con le vongole cucinati a casa mia da un incisore di cammei che veniva da Napoli a Tokyo; era la ricetta che preparava sua madre. Era un piatto facile, conosciuto e riprodotto anche in Giappone, ma il gusto profondo di quel sugo ci rimase inciso sulla lingua. Qualche settimana fa, un nostro amico vignaiolo che non vedo da molto tempo, ci ha telefonato dicendo che a Natale, senza dirmi niente, ha regalato a sua figlia un bigliettino con su scritto “regalo a te e al tuo ragazzo una cena di sushi preparata da Motoko.” Strano… questa volta mi ha fatto veramente piacere. Mio padre era un tipo molto duro ma ancora oggi lo ringrazio per il fatto che mi ha insegnato a filettare i pesci e regalato un coltello di ferro battuto da un celebre artigiano quando ho lasciato la casa di famiglia e sono andata a vivere da sola.

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