Un buon "umami" nasce solo quando nel brodo "dashi" il mare e la terra si incontrano

Questo articolo è stato pubblicato anche in lingua giapponese a questo link

 

Quando ci si sveglia al mattino, in qualunque Paese del mondo noi siamo, c’è sempre un rumore che arriva alle nostre orecchie prima delle parole. In Italia sicuramente sarebbe “pock, pock, poc, poc, pohpohpoh…”, il crescendo di una caffettiera emozionata. Nel Giappone di una volta, sul rumore di fondo del vapore, che fuoriesce dalla pentola dove cuoce il riso bianco, il “tonk, tonk, tonk” del coltello da verdura che batte ritmicamente sul tagliere. Se chi lo ascolta è un bambino che indugia ancora con la testa sul cuscino, sentirà così la presenza di un adulto e proverà una certa sicurezza. “Attenzione! Un buon “umami” può nascere solo quando nel brodo “dashi” il mare e la terra s’incontrano!” A casa mia questa figura di adulto era sempre mio padre, che amava cucinare.

La cucina giapponese enfatizza la freschezza delle materie prime e, anche se ama il gusto delicato piuttosto che complesso, non è assolutamente semplice. Questo perché l’utilizzo del brodo dashi, comune a stufati, zuppe, salse per grigliata o sughi da attingere i fritti, se non alla pasta e perfino alla verdura condita o a vapore, dà a ciascun piatto un diverso “umami”, una diversa profondità e ampiezza organolettica. Questo gusto profondo, che non si può definire semplicemente “salato” o “agrodolce”, moltiplica il mondo delle materie prime. L’alga kombu, agitata dalle onde gelide del mare nordico di Hokkaido; i katsuo, tonnetti che migrano sulle coste dell’Oceano Pacifico e i funghi shiitake che penetrano con le loro radici nei tronchi delle latifoglie succhiando la loro vitalità: ecco gli ingredienti del brodo. Vengono essiccati fino al limite estremo, utilizzando il calore del sole ed altri mezzi per concentrare il loro “umami” e poi di nuovo ammollati e fatti rinvenire in acqua per estrarlo. Fin dall’antichità il popolo giapponese si è tramandato questo sapere.  

Non è molto che ho capito il senso profondo di quella frase ripetuta da mio padre quasi come una verità presa da qualche libro sacro. Si trattava della scelta degli ingredienti per fare il brodo “dashi”. Lui estraeva il “dashi” da un’alga kombu secca come se fosse un asse di legno e dai funghi shiitake preziosamente coltivati da lui stesso e seccati sotto il sole con la massima pazienza.  

Invece mio nonno materno ci teneva a prepararlo con il katsuobushi, tonno secco e ne grattugiava personalmente un pezzo duro come un legno di noce. Zuc, zuc, zuc…, anche lui lavorava con un certo ritmo. Da bambina aspettavo con curiosità che il nonno tirasse fuori dal cassettino dell’apposita grattugia quel truciolo rosato lieve e mi piaceva degustare la caratteristica del katsuobushi nella sua zuppa.

Ma per mio padre il brodo “dashi” al suo massimo era esclusivamente quello estratto dall’alga e dai funghi e nient’altro. Nell’acqua in cui aveva messo in ammollo i funghi shiitake per una notte, buttava dentro un pezzo di alga e faceva bollire. Questo era “il brodo”. Dalle cinque del mattino lavorava in risaia ma, verso le sei si aggirava già per la cucina. Il suo ritmo nervoso ci trasmetteva nettamente il suo carattere collerico. La mano destra batteva il coltello a vuoto, tonc tonc, sull’asse mentre la mano sinistra prendeva cipollotti o melanzane e, tagliandoli a ritmo sempre uguale, li buttava dentro il brodo con noncuranza. La sua zuppa di miso (pesto di soia fermentato) aveva sempre un sentore lievemente dolce ed era molto buona. Ancor di più in estate servita fredda; allora emergeva il “dashi” dove si scontravano la forza delle maree e l’energia della terra per creare “umami” che, a sua volta, lasciava raccontare da cipollotti, carote o patate vivacemente la loro vita. E nelle gelide mattinate d’inverno aggiungeva anche un pezzettino di vinaccia di sakè che scaldava il nostro corpo.

Mio padre, anche quando andò per qualche giorno a trovare i parenti di mia madre ad Osaka, volle preparare il suo brodo “dashi” e già alle 6 trafficava nella loro cucina. Era in pieno inverno e la sua zuppa alla vinaccia di sakè fu un grande successo, anche per una famiglia raffinata di una grande città. Già allora una famiglia giapponese di città conduceva una vita frenetica e, senza tanto tempo per cucinare, introduceva facilmente l’acido glutammico, estratto artificialmente, come condimento.

Forse anche per questo la colazione con il riso bianco appena cotto e quella zuppa fumante conquistarono facilmente il loro cuore.

“Era diventato difficile pensare a un mattino senza la zuppa di Tadanobu san! Dicevamo: ahimè! Quanto saremo tristi! Invece…”  Così aveva detto la zia, telefonando a mia madre.  Quel mattino, molto prima che si svegliasse la famiglia, mio padre era già sul treno, partito dalla stazione d’Osaka, per tornare a casa. Mia cugina era scesa in cucina ancora in pigiama, con nel cuore la disperazione della solita zuppa ma aveva visto un pentolone sul fornello, aveva tolto il coperchio e aveva sobbalzato per la sorpresa. “Ma a che ora si sarà alzato per prepararla!? Mi raccomando mandagli il nostro ringraziamento. Non puoi immaginare quanto ci ha tirato su di morale!”

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