Yoshinao Shintani ha 46 anni. Vive a Yamaguchi nel sud del Giappone, fra colline dolci come quelle disegnate da Miyazaki. E’ un produttore di sakè e fa tutto da solo. L’unico investimento è stato quello di inserire una cella frigorifera in una cantina costruita anticamente in legno. Tutto l’anno lava a mano il riso nell’acqua gelida, lo cuoce con il vaporatore seguendo l’antico sistema che si chiama “koshiki”, lo stende quando è appena cotto, lo mescola nella sala per la produzione del koji dove viene attaccato dalla muffa aspergillus; in un’altra stanza, sempre mescolando, produce il “moromi” (mosto di riso); tutto questo sempre da solo. Ha un carattere mite, non alza mai la voce e affronta il suo lavoro abitudinario serenamente; i suoi occhi sorridono mentre, con la massima attenzione, ascolta il mormorio del “moromi” che raccontano l’andamento della fermentazione.

Yoshinao ha un grande sogno che lo porta a guardare al di là del mare: lui piccolissimo produttore vorrebbe far partire i suoi sakè per l’Expo di Milano.

Con lui la piccola cantina è arrivata alla terza generazione. Quando le cantine della sua misura cominciarono a chiudere, non potendosi più permettere il mastro cantiniere, lui non volle rassegnarsi. Non è uno che pretenda molto dalla vita; gli basta poter mantenere con il suo lavoro la famiglia, la moglie e i due figli. Ma gli era impossibile vinificare da solo tutta la quantità annuale nella stagione invernale (così si fa perché il freddo permette un miglior controllo delle temperature). A questo punto dovette trovare la soluzione che gli permettesse di vinificare in continuazione quantità ridotte durante tutto l’anno e così trasformò la sua cantina in una piccola cella frigorifera. Vinifica solo 600 litri per volta. Non lo mischia con l’acqua per abbassare la gradazione, né lo pastorizza. Non modifica la natura del suo sakè e lo va personalmente a vendere in giro. Organizza degustazioni e fa anche consegne a domicilio. Anche Fumiko, la sua vivacissima moglie, lo aiuta facendo tutto quello che può. Scrive anche un blog che si chiama “il diario di una moglie demone” dove finge di essere una moglie cattiva e avida che schiavizza il marito, costringendolo a lavorare in continuazione. Questo diario sta avendo un certo successo. Poco per volta le richieste del sakè “Wakamusume (fanciulla)”  di Shintani Shuzo (cantina) stanno aumentando; così, anche stamane, fuma il vaporatore  dell’ultima cantina rimasta in zona.

In Italia il sushi ha avuto successo, invece molti mi dicono che non può piacere il sakè perché troppo forte. Forse hanno conosciuto solo sakè di bassa qualità scaldati in modo brutale, dove l’alcool ti arriva come una coltellata. Il buon sakè invece si beve anche freddo! Devo dire poi che un sakè giapponese è praticamente un vino di riso; anche la gradazione alcolica è solo leggermente più alta del vino.

Io, che in Giappone avevo gustato molti grandiosi sakè di differenti zone, avrei voluto poter lasciare una delle migliori bottiglie sul tavolo e dire “prova questo!”. Purtroppo questo sakè non ce l’ho. A Londra e a Parigi hanno aperto anche dei sakè bar ma, qui in Italia, dove per i costi alti e la poca conoscenza del prodotto non c’è ancora un mercato, di buoni non se ne trovano facilmente.

Dicono che gli elementi organolettici del sakè siano più di 700, mentre quelli del whisky sono 400 e quelli del vino 600. Abbinare un vino con la cucina giapponese è difficile a causa della salsa di soia presente quasi ovunque, un vero killer del vino! Al contrario molti sakè si possono abbinare con la cucina italiana. I gusti del sakè sono ampi: dal secco al dolce, dal fruttato allo snello, ve n’è persino di corposi e da invecchiamento! L’ampiezza di gamma non ha nulla da invidiare a quella del vino.

Nella tradizione giapponese si servono tutti i piatti insieme a tavola, non uno alla volta in un certo ordine come in Occidente. Si spilucca da un piatto all’altro, quindi non ci si vuole portare dietro il gusto del sakè. Il gusto deve quindi essere “kire” (gusto troncato), senza i retrogusti che caratterizzano i vini più raffinati. Durante la produzione uno degli elementi che decidono il gusto è il grado di raffinamento del riso. Si leviga la superficie del chicco fino a far rimanere solo l’amido nel cuore. Questo rende il gusto più puro e fa nascere il “kire”. Alcuni ci mettono 100 ore a raffinare fino ad ottenere una resa solo del 35%. Invece con un basso raffinamento questa purezza si perde, ma può nascere una complessità affascinante che lascia anche il retrogusto, come un buon vino. Questi sakè, più adatti ai palati occidentali, non sono un tentativo di internazionalizzare il prodotto, perché pare che anticamente si facesse così. E in Giappone stanno diventando di moda.

Il sakè di Shintani lascia un retrogusto incredibile. Al primo impatto c’è la morbidezza ma, in bocca, si allarga con profondità e carattere. È una “Wakamusune” gentile solo all’apparenza. Così è quando lo si abbina con pesce crudo aggiunge splendore, ma mi piacerebbe provarlo con qualche piatto italiano a base di maiale. Nonostante il problema dei dazi ed i costi di spedizione, ci sono delle cantine di sakè che vogliono affrontare il mercato estero;  un po’ per la sopravvivenza,  ma anche soprattutto per orgoglio e romanticismo. Proprio come Yoshinao che vuole far partire a navigare le sue “fanciulle” per il mondo a vedere cosa succede.

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