L'anguria giapponese, più dolce di quella italiana, trova la sua sublimazione gustata con un pizzico di sale

Alle 6 e mezza di ogni mattina, i bambini del paese, grattandosi gli occhi mezzi addormentati, arrivavano al giardino del tempio scintoista e cantavano insieme al coro trasmesso dalla radio, poi facevano la ginnastica seguendo i comandi della radio. Così alla fine ottenevano il timbro del giorno sulla scheda appesa al collo. Era una delle caratteristiche consuetudini dell’estate giapponese dei tempi della mia infanzia che si chiamava “Radio Taiso (la ginnastica ritmica via radio)”. Da dormigliona quale ero, almeno una o due volte per estate non ce la facevo ad arrivare in tempo per cui, all’inizio della scuola non ricevevo mai i complimenti. Però, quando non rimanevo addormentata, al luogo di ginnastica arrivavo sempre almeno mezz’ora prima e, insieme agli altri monelli, catturavo gli insetti o facevo il gioco delle spade. Dietro il tempio si trovavano tanti nidi di formicaleone e noi tiravamo fuori dalla terra quella figura così orribile o buttavamo giù nel nido una formica piuttosto grande per verificare l’origine del nome della creatura. Eravamo dei veri dannati. Correvamo sotto la foresta folta, entravamo nell’acqua del torrente e, sulla veranda della vecchia casa, girando le pagine di un libro che parlava di un principe di un paese lontanissimo dal Giappone, ci addormentavamo. Così crescevamo, selvaggiamente abbronzati al sole dell’estate.

Non appena finiva la “ginnastica ritmica via radio”, i bambini correvano già per le scalinate del tempio verso casa dove li aspettava una bella colazione. Io, alla fine della corsa, incontravo, almeno una volta su tre, mia nonna. Quel giorno spingeva verso casa una carriola su cui la piccola donna, che indossava il suo kimono corto e un paio di monpe (pantaloni tradizionali da lavoro), portava le verdure estive come melanzane, pomodori o cetrioli, in più si vedeva anche il pancione nero verde di un’anguria che splendeva quasi come una lacca. Quando mi vide così meravigliata, disse con un sorriso.
“E’ una primizia. Mangiamola insieme, ti piace, no?”.
Con un pugno leggero provai a colpire il suo guscio allora rispose “Tomp, tomp”, come battere il pancione di qualcuno che ha appena mangiato troppo.
“Salgo su anch’io!!” dissi e mi sedetti sulla prua.
Non appena arrivai a casa con la carriola spinta da mia nonna scesi giù e presi tra le braccia la pesantissima anguria e, barcollando, la portai fino al lavandino della cucina riempito d’acqua fresca e la feci rotolare dentro. Nei boschi dietro casa si sentiva il canto delle cicale continuo e quasi irritante, come olio da friggere che schizza dappertutto.
Venti anni fa, a Roma, provai una fetta di anguria presa a una bancarella. Era fresca, acquosa e dissetante, tuttavia mancavano assolutamente sia il tipico gusto da anguria che la dolcezza, così mi deluse. La forma era ovale, non rotonda come quella che ero abituata a vedere in Giappone e la buccia era tre volte più spessa, così capii che era di un tipo diverso.
Generalmente le verdure coltivate qui in Italia sono decisamente più buone rispetto a quelle giapponesi. Invece la famiglia delle cucurbitacee, partendo dalle angurie ai meloni, cetrioli e persino alle zucche, in Giappone sono più gustose e hanno una consistenza più delicata. Penso che oltre alla differenza di cultivar, sia dovuto al clima caldo e umido e alla caratteristica del terreno del Giappone che sarà vocato alla loro coltivazione.
Quando iniziai a vivere in Piemonte, come temevo, mio marito mi disse con chiarezza che a lui le angurie non piacciono e ebbi raramente l’occasione di mangiarne. Tuttavia, negli ultimi anni, cominciamo a vedere le angurie rotonde che fanno ricordare quelle giapponesi e con la buccia meno spessa. Questo mi ha dato un piacere estivo in più.

Mia nonna nel suo orto sapeva scegliere quelle più mature, quando si crea una cavità tra il cuore e la parte dove ci sono i semi. Nella parte del cuore non si trovano molti semi e resta molto più dolce di ogni altra. Lo sapevate?
“Motoko chan, mi ricordo che a te piace matura come questa, vero?”.
Mi disse la nonna seduta di fronte a me sulla veranda, scartando i semi noiosi. Teneva in mano il botticino del sale. Mettendone un po’ sopra la fetta d’anguria, ne faceva esaltare la dolcezza.

Quando raccontai della magia del sale, all’inizio mio marito non ci credette. Mi guardò come se fosse una delle solite incomprensibili abitudini dei Giapponesi. Io invece ridevo della sua sciocchezza da dilettante fra me e me e, per punizione, mangiai tutta la parte del cuore dell’anguria da sola senza fargli sapere della sua bontà.
Ormai anche lui divora una fetta con un la saliera in mano. E, quando abbiamo la fortuna di trovare il cuore staccato dalla parte dei semi, mi costringe a dargliene metà. Questo cuore rende al massimo quando attorno diventa un po’ farinoso e, schiacciando la sua polpa contro la cavità orale, il sugo, oltre a esprimere la sua dolcezza, rinfresca tutto il nostro corpo.

“Motoko chan, mi ricordo che ti piace.”

Quante volte mia nonna pensava a cosa potesse piacere a quella sua nipotina, sua complice nell’orto!
Dopo la scuola mi aspettava là, zappando, e raccoglievo le fragole rossissime o le pannocchie cicciottelle da una pianta altissima; tiravamo su sia le patate che le patate dolci oppure lavavamo i pomodori perfettamente maturi nell’acqua di fiume e li assaggiavamo per vedere quanto fossero buoni. Quasi tutte le verdure arrivavano alla tavola di casa nostra, ma solo adesso mi sono resa conto che lei la frutta la coltivava per me, quella che più mi piaceva che potesse accompagnare le nostre ore trascorse insieme. “Motoko chan, ho provato a coltivare pure queste perché sono una rarità.”
Soprattutto di angurie ne coltivava vari tipi, grandi o piccole, dalla polpa rossa o dalla polpa gialla. Le spaccava esattamente a metà e, sempre sedute sulla veranda, le assaggiavamo insieme.

Oggi, dal fruttivendolo è toccato a me controllare lo stato di maturazione dell’anguria battendo il suo fianco. Tomp, tomp, insieme alla risposta dal cuore del frutto, tomp…per un solo istante ho viaggiato in quel mattino d’estate giapponese.

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