Tutte le proprietà del tofu, alimento d'eccellenza di ogni famiglia giapponese

Sul palmo della mia mano destra ondeggiava un bel pezzo di tofu candido. Io sono mancina e avevo paura di spingere più in giù il coltello, ma lei mi incitava: “Non avere paura e la lama non ti taglia. Quando la lama tocca la tua mano fermala lì.” Il nome di questo tofu, kinukoshi (da seta), deriva dalla sua consistenza vellutata, ma è fragile per cui il modo migliore di tagliarlo è sul palmo della mano, approfittando della sua elasticità.   
Mia madre amava il suo lavoro e non aveva tempo né interesse per cucinare; la sua cucina lasciava sempre a desiderare. Tuttavia fu proprio lei, con la sua razionalità, a insegnarmi l’uso del coltello.    
Per pelare una mela si mette il pollice della mano che tiene il coltello sulla buccia nella stessa direzione della lama e la si pela spingendo il coltello. “Il coltello non ti può tagliare il dito. Il dito è sopra la buccia e la lama passa “sotto” la buccia.”

Prima che la lama raggiungesse la mia pelle la cagliata di latte di soia, che già stentava a tenere la sua forma, si aprì in due e, dal trampolino della mia mano, ciascuno dei due pezzi, torcendosi, fece un tuffo all’indietro in posizione tesa nella pentola di terracotta riempita di brodo “dashi” di alga per poi riapparire a mettere in mostra il corpo candido e perfetto. Si taglia meglio una cosa fragile sopra una superficie flessibile. Questa nuova saggezza, che a me sembrava poco logica, mi stupì.

Se fate scaldare in questo modo il tofu con qualche fetta di maiale e, tiratolo su dal brodo, vi versate qualche goccia di salsa di soia e aceto e poi cipollotto tritato, lo potete usare per accompagnare il riso cotto in bianco. È rinfrescante e appetitoso e, allo stesso tempo, scalda il corpo raffreddato dall’inverno. È un piatto facile da preparare, per cui mia madre lo preparava ogni sera finché non si stufava.    

Il tofu è un prodotto ricavato dal latte di soia, cagliato con un caglio che si chiama “nigari”.  Si fa bollire la soia pestata in acqua per ottenere il “gojiru” da cui, strizzandolo, si ricaverà il latte di soia.  Si aggiunge il “nigari”, estratto dall’acqua del mare, cioè praticamente cloruro di magnesio, quando il latte avrà raggiunto una temperatura di 75/80 gradi. Oltre al “kinukoshi dofu” ce n’è un altro, un po’ più duro e pressato, che si chiama “momen dofu”. [Momen vuol dire cotone. Perché per la pressatura si usa la tela di cotone.]  
La procedura di produzione è simile a quella dei formaggi, ma non viene aggiunto sale e, tranne qualche eccezione, generalmente non esiste il concetto di stagionatura. Il gusto che si vuole ottenere è una lieve dolcezza, di cui la freschezza è l’elemento determinante.   

Del piatto di tofu, preparato ripetutamente da mia madre come se non conoscesse nient’altro, noi ci lamentavamo per prenderla in giro. Ma in verità a me non dispiaceva. Il gusto caratteristico della soia è appetitoso e la digeribilità porta a far funzionare meglio lo stomaco e l’intestino; così per me è un cibo confortevole senza paragoni.      

Infatti il tofu contiene sostanze nutritive d’eccellenza come lecitina, colina, saponine, isoflavone, oligosaccaridi, calcio e così via e abbassa la pressione del sangue, regola il colesterolo e aiuta a tenere lontane l’arteriosclerosi, il cancro, l’invecchiamento cerebrale e le altre malattie oggi più diffuse. Mantiene più giovane anche la pelle. Generalmente si usa per il nabe (una specie di bourguignonne) o per la zuppa di miso che nella stagione invernale giova a riscaldarsi. Al contrario, in una giornata calda, se lo si serve freddo con qualche goccia di salsa di soia e con un pizzico di zenzero grattugiato, porta un rapido sollievo. Non ci sono molte ricette complicate ma i cubetti di momen dofu fritti, dopo un’infarinatura di amido di mais serviti nel brodo dashi oppure, lo stesso momen dofu usato al posto della carne trita per quella specie di hamburger alle verdure che si chiama “hiryouzu”, sono veramente piatti simpatici e appetitosi.   

Come nella cucina di ogni famiglia italiana non manca mai qualche pezzo di formaggio, nel frigo di ogni famiglia giapponese si trova sempre il tipico contenitore di plastica sottilissima che contiene il tofu nella sua acqua.   

Anche in una piccola città del Giappone si trovava sempre un negozio di tofu dove già all’alba si dava fuoco incandescente al fornello per preparare il tofu, per poi sommergere le mani nell’acqua così gelida da congelare le dita e dividere con il coltello i fragili cubetti prima in due e poi in quattro.

Alle 7 e 15 di ogni mattino, andavo disperatamente all’allenamento di pallavolo della scuola media e attraversavo rigorosamente a quell’ora il quartiere commerciale. Io sono nata pigrona e iniziare la mia giornata con 50 battute di pallavolo non mi dava nessun brio. Ma anche in quel mattino, dopo il ronzio improvviso del motore del generatore, dal tubo di scarico che sporgeva dal laboratorio del negozio di tofu soffiò a un tratto il vapore che cuoceva il “gojiru” sopra la mia testa. Allora non conoscevo ancora cosa significasse la parola “gourmet”, ma l’aria umida mi portava un sentore soave di soia che solleticava il mio appetito e mi tirava su di morale. Fu una delle mie prime esperienze della gioia che può dare al cuore la cucina e divenne l’appuntamento segreto del mattino fra me e quel fragrante vapore scaricato in strada dal negozio.   

ilGolosario 2024

DI PAOLO MASSOBRIO

Guida alle cose buone d'Italia

ilGolosario Ristoranti 2024

DI GATTI e MASSOBRIO

Guida ai ristoranti d'Italia