Sapore d’oriente in casa: 5 minuti di relax

“Mi fai un tè matcha?”
Il vento forte di stamattina ha sparso le foglie secche per tutto il giardino e mio marito, dopo aver finito di raccoglierle con una scopa di bambù, me l’ha chiesto come se avesse acquisito il diritto ad un premio. Mentre controllo il suono del bollitore, scelgo una scodellina da tè matcha per la tonalità del colore, il peso e la forma, quella che sento più in armonia nelle mie mani in quel momento e ci verso due cucchiaini da caffè del tè macinato finissimo dall’intenso color usignolo. L’acqua bollita, da versare alla temperatura di 75 gradi, è in quantità che si possa berla in tre sorsi e mezzo (circa 70 cc). E lo agito velocemente con un frustino di bambù tenendo il polso flessibile. La schiuma del tè matcha è diversa da quella del cappuccino o della birra. Rispetto allo champagne è un po’ più solida ma, se vi lasciate distrarre dalle chiacchiere, in un istante vedrete che tutte le bolle si sono tuffate sul fondo della spessa tazza di ceramica. Appoggio con calma la scodellina del tè schiumato perfettamente davanti a mio marito. La cerimonia del tè, così detta “Cha no Yu” o “Sadou” nella nostra lingua, ha un’attenzione estrema alle regole, agli utensili, all’architettura della casa del tè; è uno dei simboli della cultura giapponese, una delle nostre belle arti, permeata di spiritualità. Tuttavia è semplicemente questa la cerimonia del tè a casa mia.

Quando si parla di “Cha no Yu”, spesso mi viene in mente il ritorno dalla lezione di cerimonia che frequentavo nell’antica città di Kanazawa. La mia maestra aveva un problema a camminare. Questa signora, ormai alla soglia della vecchiaia, non si lamentava mai del suo corpo penalizzato ma non ci aveva mai fatto vedere neanche un mezzo sorriso, né ci aveva mai raccontato nulla di personale. Quando gli alunni non si muovevano come voleva lei, li rimproverava senza pietà. Quando mi trovavo davanti al suo minuscolo giardinetto aldilà del quale vedevo l’entrata di casa sua, mi veniva sempre un sospiro di scoramento e sentivo un peso. Entrare nella sua sala da tè mezza buia, contemplare un fiore singolo di camelia perfettamente disposto, guardare fissamente una calligrafia appesa sulla parete sopra il fiore e poi, con concentrazione, cercare di ricordare un centinaio di movimenti nel giusto ordine per preparare una tazza di tè. La maestra, siccome era limitata dalla sua infermità ad insegnarci fisicamente con l’esempio, era bravissima a darci ordini con le parole. Manovrava perfettamente anche un’alunna disperata come me, come se avesse un telecomando in mano. Eppure commettevo degli errori, per questo lei si arrabbiava. Dopo qualche momento di tensione e un saluto alla maestra, uscivo da quella casa e allora mi aspettava sempre il cielo rosso della sera, ridotto a forma di quadro dai muri di terra marrone che davano sul vicolo. Chissà come mai ma, di solito in quel momento il mio corpo era pieno di un’energia che mi risollevava il morale, così mi sentivo di poter fare qualsiasi cosa. “Disponi i fiori come sono sui prati”: la bellezza dei fiori dura solo un istante. Portarla nella sala da tè vale come un vero piatto di lusso per gli ospiti. “Prepara la carbonella per far bollire alla temperatura giusta”: l’acqua va bollita a 75 gradi ma basta ascoltare il bollitore di ghisa che, al momento giusto, suonerà come un vento che agita i rami di pino.   

“D’estate, evoca freschezza, d’inverno il calore”: l’importante è come si mantiene lo spirito. Quando ho letto queste parole fra le regole di Sen no Rikyu, il monaco zen fondatore della cerimonia del tè nello stile minimale cosidetto “Wabi-cha”, ormai vivevo già qui in Italia. Ma è vero che, dal bollitore di ghisa della sala da tè della mia maestra, si sentiva sempre quel tipico rumore “shun shun” che fa il vento quando scuote i rami di un pino e che la camelia nel vaso di casa sua manteneva una freschezza come fosse appena raccolta. In estate, pure senza climatizzatore, la pimpinella e l’altea ci davano una sensazione di frescura mentre, in inverno, il tratto energico d’inchiostro della calligrafia e il contatto caloroso della ceramica aiutavano il calore della carbonella. È come dire che in quella sala s’incontravano la grande natura e il senso estetico giapponese a costruire un piccolo universo. Considerandola in questo modo, pur con quel linguaggio arcaico di Kanazawa con cui mi sgridava tremendamente, la voce della mia maestra risuona con nostalgia nel mio cuore.

Per fare il tè matcha, diversamente dagli altri tè da infusione, si macinano interamente le foglie: così conserva perfettamente tutte le sue proprietà nutritive. La catechina aiuta come anti-ingrassamento e anti-rughe. La teanina calma lo stress, sia fisico che mentale. La vitamina C, insieme alla catechina, previene la melanina e i fluoruri, allontanando la carie dai denti. È un tè venerabile in tutto e per tutto.

In Italia, anche se sarà difficile preparare il tè matcha in un ambiente autentico, tuttavia avere il tè matcha può portare una piccola ricchezza nella vostra vita. È divertente cercare una scodellina di ceramica del diametro di circa 10 cm, in sostituzione di una vera tazza. E se non troviamo uno dei tipici dolcettini giapponesi per il tè, lo possiamo sostituire con un marron glacè o con una fettina di torta di noci. Il tè matcha originale con il suo frustino ormai lo si può comprare in qualsiasi drogheria di alta qualità, se no su internet. È sufficiente saper amare anche un umile fiore di prato ed essere un po’ sensibile ai piccoli fenomeni della vita quotidiana per poter realizzare ovunque la perfezione dell’universo in miniatura del Wabi-cha.  

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