La replica di Paolo Massobrio allo scritto di Angelo Gaja

Caro Angelo,
ti ringrazio per la preferenza che mi riservi, avendo preso del tempo per rispondere a un articolo di due giorni fa, che riprendeva i lavori di Wine2Wine a Verona.
Prendo atto della tua analisi sui vitigni internazionali, che fa parte di un dibattito che dura almeno da 30 anni. Allora sarebbe stato scellerato appiattire tutto su questa tendenza e ricordo un convegno a Trieste dove io e Gino Veronelli venivamo contraddetti da Luigi Folonari che sposava già allora la medesima strada che dici tu. Il mercato ha poi fatto, fortunatamente, altre scelte, salvando l’unicità della nostra vitienologia e provando a conquistare i mercati anche con vini come il Pecorino o il Magliocco. Detto questo la tua riflessione diventa importante e mi mette in crisi, perché se c’è una cosa che ho sempre rifiutato sono le ideologie, soprattutto quando si tratta di economia. Due anni fa assaggiai i vini di un giovane piccolissimo produttore Astigiano, Poderi Girola di Calliano, che esprimeva di nuovo la coerenza del Grignolino di quelle terre. Ma il vino straordinario della sua partita era tuttavia il cabernet da vigne vecchie che aveva impiantato già il nonno. E questo mi ha fatto riflettere, immaginando che i nostri terroir hanno davvero una variegata espressione. E come dici tu, tutto può convivere e chi l’ha dura la vince.

La mia provocazione sulla tassa del cabernet invece (che non ricordavo più, in verità, e qui succede che io diventi vecchio, mentre tu resti sempre sul pezzo) ebbe origine da una certa ubriacatura, sempre oltre 20 anni fa, per cui (secondo il ragionamento sui gusti francesi che riproponi), sembrava che il sapore del cabernet fosse addirittura migliorativo dei nostri vini (legalmente o illegalmente). A quei tempi Daniele Cernilli, che adoro per le sue immagini folgoranti, parlava di “terroir viaggianti” mentre io che scrivevo sull’Espresso, avevo inventato un tormentone, per cui in qualunque articolo scrivessi mettevo una domanda “Quanto cabernet c’è in Italia?”. Nessuno mai rispose, salvo ricevere dal direttore la richiesta di intervistare un famoso produttore del centro Italia, che probabilmente era rimasto colpito dalle mie provocazioni. Lo feci, ponendogli la domanda tormentone e altre di questo genere. Uscì l’intervista, ma perfettamente edulcorata da domande e risposte su questi temi considerati sconvenienti. Funziona così il Potere, con la beffa della pierre della medesima azienda che mi telefonò dicendo: “Complimenti dottor Massobrio, abbiamo dato il testo della sua intervista a tutta la nostra forza vendita”. Questo per dire che nel nome del cabernet e dei vitigni internazionali c’è stato anche un periodo buio, nel senso di bugie. Da questo punto di vista la legge sui nostri vini doc è stata un argine che ha costretto l’Italia a scommettere sulla sua biodiversità, volenti o nolenti. C’è stato un momento dove sembrava che vincessimo mentre a Bordeaux qualche problema c’era; altri momenti dove il trend è mutato, ma credo che si ponga un problema di strategia, anche di comunicazione. Ma chi la fa?

E veniamo a Vinitaly. Che questa sia la realtà che aggrega il mondo del vino italiano è piuttosto evidente. Lo dissi quando si pose il problema di rappresentare il vino italiano all’Expo 2015, e così avvenne, nonostante alcune fughe in avanti di aziende blasonate, che avevano pretese di rappresentanza, salvo evitare di mettere mano al portafoglio che non fosse quello del ministero.

Ora, la scelta di partecipare o meno a una fiera rimane nell’alveo della proprie strategie (e ci mancherebbe); curioso resta vedere i banchetti di alcuni produttori nella sala colazioni dell’albergo dietro la fiera, che non vanno a Vinitaly, ma lo sfruttano. Vabbè. Ancor più curioso è vedere gli elogi a Vinitaly, ma poi leggere sui giornali che il sogno sarebbe fare la fiera altrove. E qui credo che ci dobbiamo capire. Io ho sempre cercato di smentire il detto sui piemontesi cortesi. Ma se a fronte della firma del presidente dell’Unione Italiana Vini, che è un piemontese, di una non so cosa che avviene a Milano sotto il nome di TuttoWine, il sito Cronache di Gusto titola “Si avvera il sogno di Gaja”, rimango confuso. Ancor più quando anche il presidente dell’Unione Italiana Vini, sollecitato tre giorni fa da Del Debbio a Verona, ribadisce che Vinitaly è l’unica realtà capace di … tutto il meglio che possiamo immaginare. Delle due l’una: o si crede che inflazionando le fiere si ottenga un vantaggio maggiore (ma io ho dei dubbi), oppure si crede che Vinitaly vada sostenuto in tutta la sua complessità, che comprende l’esposizione a Verona e anche le iniziative all’estero tanto apprezzate, così come i workshop dei giorni scorsi.

Ma in Italia il vero grande rappresentante di tutti noi, lo sappiamo, è Tafazzi, che smonta il suo giocattolo più prezioso (i testicoli appunto), per il piacere di fare qualcosa di diverso.

Infine una nota sul mondo cooperativo. Altra diatriba italiana, che non si è mai consumata con un muro contro muro, forse perché i rapporti commerciali fra aziende ed enopoli sono una realtà sotto gli occhi di tutti. E il sistema sta in piedi, all’italiana naturalmente, tutto giocata sul “si dice, non si dice” “si fa non si fa”. Nel mentre ti assicuro, ancor più dopo aver partecipato a ViVite qualche settimana fa, che gli esempi della Cantina del Barbaresco si sono moltiplicati. E come dici tu, questa è la strada.

Termino qui, perché anch’io non voglio ripetermi.

Con amicizia
Paolo

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