I contadini e la terra, un grande valore in Italia come in Giappone

«Una mattina ho acceso la TV e ho sentito un allevatore di mucche chiedere aiuto dicendo che ormai non ce la faceva più a tirare avanti e non poteva più assicurarsi il pane per l’indomani. Era un annuncio straziante. Allora ho pensato di aiutarlo io». Mentre versava l’acqua dal bollitore annerito dal fumo in una teiera, Cikara Ito (detto Rikki) raccontava a Paolo la sua storia con serenità. Massobrio se ne stava in silenzio e aspettava le prossime parole del ragazzo giapponese. «Per lui, anche dopo il lavoro in stalla, la fatica non finisce mai perché deve andare a comprare il fieno in un paese distante. Ma è già dopo mezzanotte. Anche io l’accompagno a volte. Quindi so che non ha tempo di dormire. È una vita davvero tremenda». Eravamo nel suo capannone, quasi all’ora del tramonto. Il tè verde, sorseggiato dopo la visita alla fattoria, al calore di una stufetta a legna, lasciava un retrogusto dolce. Cikara san, laureato in un'università americana, aveva fatto diverse esperienze in vari settori e alla fine aveva fondato una ditta di import-export che andava abbastanza bene, ma non esitò ad affidarla a un altro. Così nel 2014 costituì la sua nuova attività, dal nome beneaugurante di “Paradise Field”, affittando dal Comune un terreno incolto di 5 ettari e iniziò a bonificarlo. Insalate e radici commestibili: coltiva tutto quello che può, sta provando anche con l’apicoltura e alleva pure due capre. Quell’allevatore visto in TV, oltre al suo lavoro con le mucche, ha cominciato a lavorare da Cikara. Il suo sogno sarebbe di trasformare quel terreno in un bel posto attraverso l’agricoltura eco sostenibile. «Dal punto di vista economico funziona?» Paolo glielo chiede fissandolo negli occhi. «No, non ancora. Non sono in grado di pagare né lui né gli altri part-time. Ma dall’anno prossimo le entrate saranno raddoppiate. Questo perché potrò guadagnare parlando alle conferenze o organizzando anche qualche evento». Paolo ha annuito profondamente: «Se io faccio un altro evento a Tokyo potresti venire a raccontare tutto quello che mi hai detto?». Questa volta Cikara san ha assentito senza dubbi.

Ho avuto la fortuna di poter assistere a questo bellissimo momento in cui un agricoltore giapponese e Paolo creavano un’amicizia ma, mentre traducevo quello che si dicevano, m’è venuto un pensiero triste. Non tutti gli agricoltori giapponesi vengono chiamati a parlare in pubblico. La spietata realtà è la grande difficoltà di mantenere la vita solamente con l’attività agricola. E questo mi ha fatto soffrire.

A Nizza Monferrato, mentre tirava fuori con la zappa per noi i suoi cardi gobbi dal campo gelato, il nonno Bongiovanni ci ha detto «Non dimenticate di mandare i miei saluti a Massobrio, neh! E ditegli che sento la sua mancanza». Anche a lui, nato in una famiglia contadina, dopo la guerra, era toccato abbandonare la terra per cercare una vita migliore. Tuttavia non riusciva a dimenticare la gioia di lavorare in campagna. Così, appena poté, ritornò al suo orto. Aveva sempre avuto la passione per i cardi gobbi, proprio la specialità del suo paese che si andava perdendo. Negli anni ’70 si trovavano solo cardi prematuri e mal coltivati. Lui, in silenzio, cominciò a seguire la vecchia tradizione, facendo tutto a mano, con amore quasi paterno. Fu proprio Paolo Massobrio ad accendergli il primo riflettore negli anni ’80. Un giorno Paolo gli chiese di portare i suoi cardi alla piazza del paese. Così fece. Paolo, che l’aspettava, cominciò a presentare appassionatamente lui e i suoi cardi e, alla fine del discorso, intinse un pezzo di cardo nella bagna cauda già preparata in un tapin e se lo mise in bocca con grande soddisfazione. E così fecero tutti i presenti. «E poi sono stato chiamato alla televisione e i cardi gobbi di Nizza Monferrato sono stati inseriti fra i presidi Slowfood. Ma lo sai… la prima persona che mi diede una mano a promuovere questa verdura fu Massobrio, capito!?».

Per Paolo Massobrio è importante stare vicino alla terra e alla gente che con la terra vive. Questo è già evidente dal fatto che, per presentare se stesso, il discorso parte sempre dal suo piccolo paese di Masio e dalla cultura contadina di cui si è permeato fin dall’adolescenza. Per questo la sua critica come giornalista enogastronomico parte sempre dalla comprensione della fatica di chi lavora col sudore della fronte e dalla sua importanza. Così li consola della vita dura con la sua allegrezza e simpatia, riuscendo a far nascere subito un’amicizia. Ormai, a Sud come a Nord, si trovano numerosissimi produttori e cuochi che provano un grande affetto verso di lui come il nonno Bongiovanni. Quando l'ho presentato in Giappone, ho cercato di far notare che Paolo ha girato tutta l’Italia con i suoi piedi a trovare i produttori e che la guida “ilGolosario” è nata così. Ai Giapponesi basta dirlo per capire che questa guida non è un cumulo di dati e di classifiche dei vari prodotti fatta da ispettori estranei, ma un viaggio di conoscenza umana prima che gustativa fra le cose buone e fra le persone che le producono.

Dalla seconda metà degli ’90, per circa 10 anni, il numero dei Giapponesi venuti in Italia con il sogno di diventare uno chef di cucina italiana è sempre aumentato. E molti di loro, oltre che apprendere la tecnica, hanno imparato il modo di scegliere le materie prime, la scelta del posto migliore per aprire un locale, il modo di allevare gli animali da carne e persino lo spirito che ci vuole per cucinare. Insomma sono tornati in patria portandosi dietro l’intera cultura della cucina italiana.
Oggi i giovani giapponesi vengono a imparare in Italia l’arte di fare il vino in cantina o la caseificazione artigianale. I vini italiani migliori è difficile non trovarli in Giappone e, per chi vuole cucinare a Tokyo un piatto regionale italiano, anche particolare, non è un problema trovare tutti gli ingredienti. La competenza dei giornalisti e dei sommelier non lascia a desiderare rispetto a quelli Italiani. Sembrerebbe che ormai non ci sia più nulla da imparare dal Bel Paese.
Nello stesso tempo, però, il consumo dei cibi tradizionali come il saké, il miso o la salsa di soia si sono dimezzati rispetto all’immediato dopoguerra. Lo stile di vita e del mangiare è cambiato drasticamente. Di conseguenza, sia la superficie di terreno coltivato che il reddito dall’attività agricola sono in costante diminuzione. Il terreno agricolo dismesso invece è in continuo aumento. Una volta, tornata a casa per una visita, volevo far assaggiare un piatto di pasta al pomodoro alla famiglia di mia sorella. Così sono entrata in un supermercato di una città di campagna. E ho trovato solamente un sacchetto di 4 pomodori piccoli, grandi appena il doppio di un ciliegino al prezzo imbarazzante di 420 yen (3,50 euro). Erano rossi e maturi, quasi troppo belli con la loro forma tutta rotonda da pallina da golf ma, purtroppo, il gusto non meritava proprio il loro prezzo. Quella sensazione che il Giappone, mentre si lascia prendere in giro dalla complicatezza dei meccanismi del mercato, abbia dimenticato da qualche parte il cuore dei produttori, mi ha lasciato senza parole.

Man mano che cresceva l’amicizia con Paolo ho avuto il desiderio di farlo conoscere in Giappone, non tanto per la sua grande competenza nel settore enogastronomico, ma perché è una delle rarissime persone che, quando si mette in bocca qualcosa di buono, riesce a condividere la sua gioia sia con chi l’ha fatto sia con chi l’ha mangiato. È una presenza che, invece di aggrottare le ciglia per criticare un prodotto, spalla a spalla con i produttori, scambia una battuta, li consola della fatica, li aiuta a custodire la tradizione e a coltivare il futuro. Penso che serva far sapere ai Giapponesi che in Italia, il Paese più ricco di cultura enogastronomica del mondo, esista anche una persona così. A metà gennaio, come un appuntamento fisso, c’è la riunione dei Delegati del Club di Papillon. Non succede quasi mai ma, proprio questa volta, io e mio marito siamo stati gli ultimi ad arrivare. Ma c’è stata una sorpresa: ci hanno accolto tutti con una fascia con il Sol Levante sulla testa. «Andiamo in Giappone tutti insieme!».
Quelli che erano lì sono amici di Paolo da diverse decine d’anni, di tutta Italia. Per Paolo, che ha sempre portato avanti la sua attività solo in Italia, sbarcare in un Paese ignoto e così diverso come il Giappone, è stata una bella prova di coraggio. Era un mezzo scherzo ma pieno d’affetto e di incoraggiamento, come dire: «Vai che sei pronto!». Unendomi a loro per scattare la foto di rito, ho provato una certa emozione, ma anche una grande invidia per un’amicizia così grande.

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