Dieci anni fa mancava Luigi Veronelli, giornalista, scrittore, filosofo, maestro.

Fosti tu Gino, a scrivere che la vite era il canto della terra verso il cielo? Mi pare proprio di sì. Ma secondo te si canta (il canto è l’espressione più bella dell’uomo e della donna tua paritaria), dico si canta, verso un cielo muto? Vabbè, siamo ancora a tavola come quella sera a Torino del novembre 2003, a casa di Marzia e Riccardo Riccardi conte di santa Maria di Mongrando, a sentire il tuo grido di cui mi onorasti, sul senso della vita.

Che litigata, pensarono gli altri pochi nostri commensali, e invece era il tuo grido. Che altro avremmo dovuto dirci? Che il Monfortino che Riccardo ci offriva sapeva di tabacco e di cioccolato? Io quella sera vidi in te l’uomo religioso, che nella mia categoria è innanzitutto quello che si fa delle domande, che è curioso, che grida. E non si accontenta. Al contrario dell’uomo stupido, dell’edonista che consuma per sé, senza chiedersi nulla, se non della propria digestione, del proprio appagamento. L’ultimo giorno di settembre dell’anno dopo (che bel mese!) ci lasciò Riccardo, e per la prima volta ti vidi con la giacca scura e la camicia chiara. Anche nel vestirti, quel giorno, c’era il tuo senso di rispetto, di amicizia, davanti al mistero della morte, che Riccardo ci volle risolvere facendo sì che si suonasse l’inno alla gioia, mentre uscivamo dalla chiesa di Priocca coi lacrimoni.

Due mesi dopo, il 29 novembre, verso le 17,40 al teatro Regio di Torino mentre celebravo la mia Golosaria, Romano Dogliotti mi chiamò al cellulare urlando. “E’ morto Gino!”. Fermai tutto. Almeno per ricordarti con chi c’era lì. Un minuto di silenzio per accompagnare la tua eternità. E sono passati 10 anni. Dieci anni dove ciò che hai detto e hai scritto talvolta ritorna attuale, anche se ora mi accorgo che quando scrivo e parlo di Veronelli, devo spiegare chi sei stato per noi, perché i nuovi, i giovani, non lo sanno. O non glielo hanno raccontato. Tu sei stato il Maestro. Te lo dissi alla fine del nostro epocale litigio, davanti a una platea di 500 persone a Rocchetta Tanaro, prima di presentare il libro su Giacomo Bologna quando poi tu mi chiedesti se scrivevo un libro per te, sul nostro amico comune: sempre lui, Riccardo Riccardi, conte di santa Maria di Mongrando.

Nella foto che ci ritrae insieme siamo a Verona, a presentarlo. E ti dissi che i maestri hanno una sorte bizzarra: non sono loro che si scelgono gli allievi. Io, che non ho mai collaborato direttamente con te, tranne quel libro, ti ho riconosciuto maestro per quel tratto umano che cercavi in ogni cosa, in ogni rapporto. E anche l’umanità aveva qualcosa di religioso, perché rispondeva a quella sete di felicità, di giustizia, di bellezza con cui stare al mondo, che è al fondo, appunto, del “senso religioso”. Quanti rapporti hai imbastito Gino. Quanti schiaffi mi sento tirare addosso pensando a Pino Ratto, a Pippo Parodi, a quella gente a cui tu hai regalato del tempo. E invece io no: che allievo del cavolo!

Mi fa ancora male quel pugno che mi tirasti nella schiena, il 2 ottobre 2004, quando a Barge, l’assessore Perazzi ci diede la castagna e la mela d’oro, perché credevamo nelle De.Co., le denominazioni comunali. Alla mia castagna, la tua castagna nella schiena: per dirmi vai avanti! Un mese prima eravamo ad Asti, un mese dopo ci aspettavano ad Alba, sempre per parlare di De.Co. Ma tu quella volta non arrivasti. “Gino sta male" – mi disse Sergio Miravalle – ed io, appena finito il convegno, anziché andare a pranzo mi diressi a Priocca, al cimitero, a trovare il conte Riccardi pensando a te, alla nostra bella amicizia, come diceva Anna Bologna, che quando litigavamo ci soffriva. Ti voglio bene Gino!

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