Riceviamo e pubblichiamo, ringraziando Angelo Gaja per l’attenzione che ha verso la comunicazione e per averci dato il suo punto di vista.

A questo link è possibile leggere l’articolo cui si fa riferimento, mentre la replica di Paolo Massobrio, per chi vorrà leggerla, è nello scritto a fianco (link).

Caro Paolo,
un commento al tuo articolo su Avvenire del 28 novembre Sul rallentamento del nostro Export negli USA.
È causato dalla “riscossa” dei produttori del nuovo mondo (extraeuropei). Paesi che sull’esempio della California avevano puntato tutto su alcune varietà francesi, specie Cabernet e Merlot. Dapprima per costruire la domanda interna in loro favore, cercare di soddisfarla e poi esportare anch’essi contribuendo a costruire nel consumatore dei paesi extraeuropei un'assuefazione al gusto dei vini derivanti dalle varietà “francesi”. Negli ultimi anni è successo che consumatori affezionati di quei vini abbiano cercato anche di verificarne la qualità all’origine (Bordeaux), favorendo così la Francia, facendole da traino. In minore misura è avvenuto anche per Chardonnay, Sauv. Blanc, Pinot Nero. Di qui il successo dell’export francese.  
Sulla presenza del Cabernet in Italia ricordo che tu avevi invocato una tassa comunale: ovviamente era una battuta scherzosa, ma non erano mancati quelli che la prendevano per buona e alimentavano avversità alle varietà internazionali. Mentre invece l’Italia ha grande vocazione a giocare sui due tavoli: quello delle varietà indigene, a 360° e quello delle varietà internazionali, a condizione di esprimersi solamente ad alti livelli tralasciando di produrre vini di qualità standard. Il successo degli internazionali italiani è lampante: Sassicaia su tutti, Ornellaia, Masseto, Merlot di Ama, Solaia, Didacus, Il Roccolo…
Vini la cui qualità il consumatore estero riesce immediatamente ad apprezzare per averli già assaggiati nella versione francese. Essi costituiscono così delle mosche cocchiere che invogliano i consumatori esteri a scoprire anche i vini italiani dalle varietà indigene. Questa sicuramente una strategia vincente!  

“andiamo all’estero in maniera confusa, promuovendo pezzetti dell’Italia, ma non l’Italia. L’Ice dov’è"
Sempre a invocare l’ICE che istituzionalmente ha il compito di tutelare-promuovere l’intera PRODUZIONE italiana! Dotato di scarsi mezzi economici, che non ha neppure il dovere di possedere competenze specifiche per la promozione all’estero del vino italiano. Escludendo alcuni Paesi, come gli Stati Uniti che godono della presenza di un direttore capace come Forte, è meglio non affidare all’ICE il compito di promuovere il vino italiano. 
Ne consegue che da noi a condurla siano CCIAA, Regioni, Consorzi… come spesso più o meno efficacemente avviene per Francia, Spagna, Argentina, Cile, USA, Nuova Zelanda, Israele …  

Si faccia avanti chi è capace di progettare una strategia unitaria, di Paese Italia, capace di valorizzare il vino italiano, espressione di oltre 530 DOP-IGP, spumanti, vini da tavola… Chi potrebbe essere autorizzato a farlo sui mercati esteri è Vinitaly. Spetta a  loro, più di ogni altri, di formulare idee e progetti da sottoporre a produttori e Consorzi, in grado di accoglierli. Senza stare a lamentarsi del fatto che le aziende leader non ritengano strategicamente utile partecipare alle loro iniziative: così come in Francia DRC, i premiers Crus Bordolesi, Dom Perignon, Nicolas Joly… non sono MAI a fare gruppo, perché il loro contributo lo danno già, e forte, operando individualmente. Mancano purtroppo idee, progetti smart, capaci di fare spendere con maggiore profitto il  denaro pubblico che piove sulla promozione del vino italiano.  

Poi occorre aiutare a crescere le cantine Cooperative, che controllano più del 60% del vino italiano, anche troppo! Con nuove iniezioni di denaro pubblico? Sarebbe da scellerati. Vanno aiutate a comprendere che produrre private labels non aiuta ad affermare il marchio. Che anch’esse possono produrre Premium Wines, a condizione di affiancare ai mega-enopoli con catene da 20.000 bottiglie ora, delle cantine più piccole, di tipologia e vocazione artigianale, sul modello dei Produttori del Barbaresco. Se ce l’hanno fatta loro a distinguersi e guadagnare allori, perché non potrebbero farlo altri della cooperazione?  

Ancora: all’estero viene riconosciuto all’Italia il primato nella produzione di food-wines. Ne consegue che le cantine italiane debbono operare maggiormente per introdurre i vini italiani non solamente nei ristoranti di cucina italiana che sono all’estero (ai quali va riconosciuto grande merito per quanto hanno saputo fare in favore dell’agro-alimentare italiano) ma anche e particolarmente nelle cucine etniche, dei singoli paesi.  

Fortunatamente negli ultimi dieci anni ha preso avvio presso le cantine italiane di grande scala l’apertura all’estero di filiali, capaci di operare direttamente importazione e distribuzione dei loro vini, e magari anche di quelli prodotti da altre cantine italiane. In questo settore occorrono maggiori investimenti.                

La ricetta per il futuro del vino italiano? Non ce l’ha nessuno. Sembra a me che vada augurato ai produttori di continuare a  lavorare duro; accettare che gli altri Paesi vogliano anch’essi mangiare una fetta di quella torta che, negli USA ad esempio, ritenevano preparata principalmente per noi; esplorare attivamente i mercati nuovi; liberare gli artigiani di dimensione medio-piccola dall’oppressione di una burocrazia soffocante, assurda, per dare sfogo ad una creatività/genialità/inventiva da parte di un patrimonio umano dedicato al vino che nessun paese ha così ricco come l’Italia; imparare ad utilizzare il digitale; preservare i luoghi sacri del vino, pochi in verità e fragili, non disperderne l’identità tenendoli al riparo dall’assalto dei turisti per caso: non vado oltre perché ripeterei concetti espressi più volte. Manco di fantasia. 

Con amicizia,
Angelo    

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