Dai racconti brevi "Il mestiere della spada" dello scrittore giapponese Shotaro Ikenami
Pensate che un uomo qualunque possa essere in grado di appropriarsi perfettamente dell’arte della katana (spada giapponese)? Un giorno un certo Mataroku, che faceva il venditore ambulante d’anguille, si presentò all’improvviso nella palestra dello spadaccino Daijiro e, consegnando 5 Ryo (l’equivalente di circa 5000 euro d’oggi), tutto quanto aveva risparmiato negli ultimi anni, gli chiese di farlo diventare forte in soli 10 giorni. Anche se Daijiro cercava di spiegargli che ci sarebbero voluti come minimo 10 anni per poter imparare bene, Mataroku insistette prostrandosi fino a terra in un inchino di rispetto e disperata speranza. Avendo sentito tutta la storia, Kohei Akiyama, padre di Daijiro e anche lui spadaccino, disse: “Vediamo un po’ se posso darti una mano” e, dopo averlo fatto spogliare a torso nudo, lo legò al palo della palestra. Poi, tirando fuori la sua spada più corta, a velocità quasi invisibile, cominciò col dare un colpo di taglio leggero sulla pelle di quel corpaccione bianco. Poi un altro colpo e un colpo ancora. Man mano che il suo corpo si macchiava di rosso, al terrorizzato Mataroku veniva impartita dal maestro Kohei la prima lezione: bisogna dimenticare la paura del dolore. Dopo questo, il figlio Daijiro gli diede lezioni di tecnica della spada, così Mataroku riuscì a difendersi da solo dal fratellastro che veniva a strappare quei pochi soldi che guadagnava con la vendita delle anguille.
E’ una scena che si trova nella serie di racconti brevi “Il mestiere della spada” (Kenkakushobai), una delle opere dello scrittore giapponese del dopoguerra Shotaro Ikenami. La serie consiste di più di 100 episodi in cui i protagonisti sono Kohei Akiyama, un vecchio spadaccino minuto e apparentemente fragile, ma un vero fuoriclasse che, con l’aiuto del figlio maggiore Daijiro, giovane e idealista, risolve tutti i problemi della gente sconfiggendo gli uomini della malavita. Questi racconti sono ambientati a Edo (ora Tokyo) l’antica capitale sotto lo shogunato dei Tokugawa, nella zona dove scorre il fiume Sumida (Okawa era il vecchio nome). Oltre all’uso straordinario della spada, Kohei, con l’occhio leale da samurai, la maturità e la grande umanità da veterano, prende la decisione più saggia in ogni momento di difficoltà, per cui, anche dopo 30 anni dalla scomparsa dell’autore, questa serie è sempre molto amata dai Giapponesi. Lo stile è essenziale e affilato come una lama, senza nessun aggettivo inutile tanto da sembrare come scritto di getto, senza apparente fatica; tuttavia la scorrevolezza della sua prosa e le battute che fanno trapelare l’umanità profonda dei personaggi, sono avvincenti e fanno scoprire al lettore fino in fondo il mondo della città di Edo. Poi c’è un’altra caratteristica che lo differenzia dagli altri autori di romanzi con la stessa ambientazione: la vivace e particolareggiata descrizione della cucina dell’epoca.
“Mataroku, il venditore ambulante d’anguille, viveva con Omine, la madre anziana, in un caseggiato con molte famiglie di Shimada-cho, quartiere popolare nella zona di Fukagawa. Omine conosceva già sia Kohei Akiyama che il figlio per cui, quando Daijiro chiese se potesse aspettare con lei finché non tornasse Mataroku, lei subito versò il sakè senza scaldarlo in una tazza da tè a glielo porse. Evidentemente, avendo risolto quel problema col suo fratellastro, ormai anche Mataroku si poteva permettere ogni tanto un buon saké.
Nel frattempo Omine cominciò a preparare la cena e la servì in un attimo.
La velocità del suo lavoro non permise a Daijiro neanche di farle i complimenti.
Fece cuocere in brodo dashi, abbondante ma leggero, le vongole sgusciate, che erano nel pieno della stagione, insieme al verde di cipollotto. Poi portò la pentola di terracotta e rovesciò tutto questo sopra il riso appena cotto. Così lo servì attingendo dalla pentola con una ciotola.
La gente della zona chiama questo piatto “bukkake" (rovesciato).
La cena era tutta qui con l’aggiunta di un po’ di daikon sotto sale, ma Daijiro ne finì 4 tazze in un attimo, quasi lappandole con la lingua.
E solo dopo aver finito se ne accorse.
“Ah…….accidenti ma io……”
Arrossì, ma era troppo tardi. E si ricordò che, quel giorno, dopo la colazione, non aveva messo più niente in bocca fino a quel momento.”
Da “Machibuse (Agguato)- Kenkakushoubai”- 1978 Shincho-sha
Daijiro aveva utilizzato Matakoru per pedinare segretamente un misterioso samurai e la scena in cui la madre di Mataroku accoglie Daijiro che stava aspettando suo figlio con timore, preparando questo piatto di cucina povera veloce e gustoso, non solo mette in mostra la stagionalità e la territorialità di chi abita vicino al mare, il rispetto e l’affetto anche in una situazione anomala non priva di una certa suspense, ma scioglie per un attimo la tensione di Daijiro, dando un senso di piccolo sollievo anche ai lettori.
Anguille, vongole, carpe, oppure pasta udon e soba o zuppa di miso, tutti questi piatti della cucina popolare del periodo di Edo, descritti da Shotaro Ikenami, sono piuttosto semplici, soprattutto basati sulla freschezza delle materie prime: non si trovano pietanze in umido, cotte a fiamma bassa per ore e ore: i personaggi di questi romanzi quasi sempre tagliano sottile, fanno cuocere poco, bollire in fretta se non arrostire.
Infatti la città di Edo fu una “capitale costruita” dallo shogun e dalla casta dei samurai dove inizialmente la maggior parte dei cittadini erano muratori, carpentieri, falegnami e altri artigiani; quindi era una città di uomini, dove la presenza femminile era decisamente scarsa. La conseguenza fu la realizzazione di una cucina fresca e facile da eseguire. Per di più, in questa città costruita prevalentemente in legno, la possibilità di un incendio terrorizzava la gente più di ogni altra cosa, per cui usare il forno per lungo tempo probabilmente non era ben visto. Nella zona del Sumida, dove c’era una rete fitta di canali quasi come quella di Venezia (naturalmente non c’era ancora il frigo), ci si poteva procurare ogni tipo di materia prima fresca ed era sicuramente meglio toccarle meno possibile per non guastarle e mangiare bene.
E poi per strada c’erano cuochi ambulanti come Mataroku che vendevano questi piatti semplici e appetitosi; così, anche agli uomini che non avevano tempo per cucinare, era possibile mangiare fuori senza problemi.
Nel Giappone di oggi è diventata una specie di cultura divertirsi con le chiacchiere tra cuoco e clienti, mangiando al bancone: può darsi che si sia sviluppata da questa figura degli ambulanti e da questi artigiani che andavano a mangiare quasi sempre da soli.
Shotaro Ikenami era in grado di fare con disinvoltura l’abbinamento tra la cucina della gente di Edo e le sue storie, dando così un tocco di vivacità e di verità ai protagonisti. Gli assistenti degli investigatori addentavano onighiri (polpetta di riso) perché si potevano mangiare anche in piedi senza usare le bacchette e, davanti a Daijiro e agli altri che si mettevano d’accordo con Kohei sulla strategia per l’assalto ai cattivi, c’era quasi sempre una pentola bollente dove ballavano pezzi di tofu o un bel galletto.
Quando lasciai il Giappone non potevo che portare con me i 19 volumi de “il Mestiere della Spada” perché custodiscono dentro i tesori di un Giappone che mi è indispensabile.