Ayu, i pesci argentei dal profumo piacevolissimo e dalle carni fini e delicate

«Motoko chan, io parto domani per il Giappone…». Così aveva detto una voce conosciuta alla mia schiena. Era una mattina d’estate, di buon'ora ed ero appena scesa sulla strada dalla mia solita passeggiata a prendere l’aria fresca nei boschi biellesi. Era Enzo, uno dei massimi esperti del Giappone di questo territorio laniero, dove si trovano molte aziende che lavorano con il mio Paese nativo. Sui baffi, spessi come Krumiri di Casale Monferrato, i suoi occhi brillavano limpidi come quelli di un bambino quando mi disse: «… vado per mangiare A.YU.!».
«Ah!» mi lasciai scappare un piccolo verso di invidia. Anche quando non trovavo il tempo di tornarci o quando degli amici italiani mi raccontavano del loro viaggio nel mio Paese, non provavo nostalgia né qualche particolare mancanza. Tuttavia, quando lui pronunciò con crescente passione il nome di questo pesce di fiume, “Ayu”, mi ritornò in mente il fiume Kuzuryu, che attraversa maestosamente il mio paesino, dove i pescatori di Ayu portavano la loro lunghissima, quasi sproporzionata, canna da pesca e mi uscì un sospiro di nostalgia.
D’estate in quel fiume, il cui nome Kuzuryu, dovuto agli straripamenti furiosi, significa “drago a 9 teste”, gli Ayu dal color argento chiaro crescono in fretta fra i 15 e i 20 cm. Sono pesci migratori bellissimi e delicati che, nella loro vita effimera di un solo anno, dallo schiudimento alla deposizione delle uova, si spostano dal fiume al mare per poi risalire di nuovo al fiume nativo. Vengono chiamati anche “pesci fragranti” per il loro profumo piacevolissimo, fresco e dolce che ricordare l’anguria o il cetriolo. Dentici, tonni, ricciole, sono tanti i pesci amati dai Giapponesi, ma per me, fra tutti, proprio l’Ayu mi lega nel ricordo al paesino dove sono nata e all’autunno giapponese, la stagione del raccolto.

Anche mio padre andava a pescare gli Ayu e, in tarda estate, non appena trovava il tempo, spariva lungo il fiume. Ma soprattutto, a ogni autunno c’era una donna che veniva a trovarci dall’altra sponda del fiume per portarci gli Ayu che aveva fantasticamente cucinato per noi. Si chiamava Nakano san. Si presentava immancabilmente pochi giorni prima della festa del raccolto del paese e, inginocchiatasi sulla scalinata di ingresso della nostra casa, srotolava la stoffa che copriva una scatola laccata riempita dei suoi piatti favolosi e ci spiegava cos’erano; melanzanine sotto vinaccia di sakè e senape giapponese, sushi di salmone fermentato con riso koji, insalata di patate selvatiche e tofu e poi degli Ayu arrostiti al sale messi sopra un vassoio di bambù intrecciato. In tutto il paese era solo lei a saper cucinare queste bontà. Con i miei rimaneva per molto tempo lì inginocchiata a far chiacchiere sull’andamento del raccolto. Portava occhiali sul viso ovale che le davano un’aria da professoressa di lettere, ma era una grande conoscitrice dei piccoli accorgimenti che facilitano la vita quotidiana, dei lavori di campagna e, soprattutto, delle macchine agricole. Aveva addirittura il rispetto di uno come mio padre che, sulla risicoltura, trovava sempre da ridire a tutti.
Ci aveva detto sorridendo che non le era necessaria una particolare attrezzatura per prendere gli Ayu. Il giorno dopo la pioggia, questi pesciolini, si nascondono sotto i giunchi secchi lungo il fiume e lei, semplicemente, li schiacciava da sopra e i giunchi funzionavano come una specie di rete. Questo racconto aveva stupito molto mio padre. Allora mi disse che voleva farmi vedere il vero modo di mangiarli e ne mangiò uno di quelli di Nakano san tutto intero, dalla testa.

La lisca è molto fine, quasi fragile. La fibra della carne è finissima e il gusto molto delicato; alla fine in bocca lascia un gusto d’intestino lievemente amaro che, al palato preparato da adulto, dà una convinta soddisfazione. Mio padre ne teneva sempre qualcuno da parte e, il giorno dopo, li faceva cuocere con il riso nuovo. Unito alla salsa di soia e al saké, il gusto raffinato e la croccante fragranza dell’Ayu assorbiti dal riso lo facevano di nuovo felice. Nei giorni successivi era suo turno ad andare a visitarla, portando in dono i sapori di casa nostra. Toccava a lui inginocchiarsi all’ingresso dopo un lungo ringraziamento e si mettevano di nuovo a chiacchierare. Questi sono i miei ricordi sugli Ayu e su quella “gioia del mangiare” che la particolare formalità giapponese non riusciva a contenere, ma traboccava di felicità negli scambi rituali di due piccole famiglie.

Qualche anno fa, aprendo la rivista “Ryoritsushin”, proprio quella degli amici giapponesi del Golosario, chi ti trovo? Proprio il sorriso di Nakano san, quasi uguale a come me lo ricordavo e un articolo sull’associazione femminile “Gruppo Waka Ayu (giovane Ayu)” e sulla sua attività. Quei sapori autunnali, scoperti a casa mia, sono diventati grandi protagonisti per la valorizzazione del territorio.

All’improvviso ritornai in me e vidi Enzo sempre con stampato in volto il suo sorriso felicissimo. «Buon viaggio, Enzo san!». Era già cessata la gelosia ma mi era venuta fame, così corsi in pescheria. Purtroppo i miei Ayu ci sono solo in Giappone e in qualche altro posto dell’Asia, ma non qui. Comprai le sarde più grandi. Le aprii dalla schiena, tolsi le lische e le riempii di umeboshi (prugna giapponese sotto aceto) e basilico, poi le passai nel bianco d’uovo e pan grattato per friggerle croccanti. La ricetta, inventata da un ristorante importante di Kanazawa, una delle città antiche, per godere della delicatezza del pesce Ayu, venne trasformata nella bontà senza snobismo delle sarde mediterranee e consolò la mia bocca con il suo calore. Proprio come quello che mi danno gli amici italiani che mi stanno sempre vicini.

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