La zuppa d'anitra nel brodo di miso con zenzero e verdure

«Fratello grande, io sono … insomma, uno di quelli che fanno cose che fanno piangere i genitori».
Senza fare una piega, quella persona gli aveva confessato il suo mestiere. L’Ospedale della facoltà di Medicina si trova vicino alla foce della Laguna di Kahoku che si estende alla periferia di Kanazawa come se fosse lì per ostacolare il flusso del vento che tira dal Mar del Giappone. Mio padre, che era lì per vegliare la mia sorellina, se n'era scappato dalla camera per prendersi un attimo di svago e, mentre passeggiava fra le migliaia di giunchi della sponda, aveva trovato quell’uomo con la canna da pesca tenuta mollemente in mano e gli aveva rivolto la parola. Mio padre era un uomo particolare a cui bastavano poche parole per acquisire la fiducia di chiunque. Il pescatore non aveva quel tipico aspetto che vediamo spesso nei film, ma bastava vedere i suoi capelli tutti tirati su e impomatati, lo sguardo da rapace, il corpo allenato e la schiena tutta dritta per capire fuori da ogni dubbio che fosse uno yakuza. A questo punto evitarono di presentarsi con il loro nome e di far sapere la loro provenienza e solamente mio padre continuò a raccontare che era lì per la figlia più piccola in cura all’ospedale, che si dava il cambio con mia madre e poi, naturalmente, tutte le altre storie e avventure divertenti avvenute nel suo passato. Alla fine, il signor yakuza, che lo aveva ascoltato con la massima attenzione, gli disse: «Fratello grande, anche domani la aspetto qui e preparerò anche per lei una canna da pesca».
Mio padre fece un piccolo cenno.
(Ma se vengo domani cosa mi potrebbe succedere? A sentire il suo accento comunque non deve essere uno di questa zona.) Dicono che gli yakuza rispettino comunque una loro etica, una specie di codice d’onore. E soprattutto che non se la prendano mai con la gente comune. Per mio padre, che lavorava come risaiolo da qualche decina d’anni, era la prima volta che conosceva un cosiddetto yakuza; comunque gli era sembrato un tipo estremamente educato. Poi, di stare in una camera squallida d’ospedale giorno e notte, non ne poteva più. Si erano poi trovati a parlare di cucina e si erano sorpresi entrambi esperti e golosi. O, probabilmente, avendo entrambi qualche cosa da nascondere, mio padre il dolore per la gravità della malattia di mia sorella, lo yakuza chissà cosa, si erano trovati piacevolmente a conversare su quell’argomento innocuo. Così mio padre, il giorno successivo, partì per il luogo dell’appuntamento. (Non mi ucciderà. Anzi, se non ci vado, mi ucciderà per quello).
Alla fine mio padre ci guadagnò ad andare all’appuntamento con il signor Yakuza. Non solo perché, non deludendo il suo nuovo amico, non fu ucciso ma perché questi lo aspettava con in mano una bellissima canna da pesca che aveva comprato apposta per lui. Come il giorno precedente, si divertirono chiacchierando fra di loro e, alla fine, si salutarono. Da allora i loro incontri giornalieri davano a mio padre una grande gioia, come gustarsi le delizie della cucina di Kanazawa. Quando cominciarono a stufarsi della pesca, il sig. Yakuza gli disse:
«Fratello grande, domani proviamo un altro tipo di divertimento. Venga prima d’alba. Non dimentichi di vestirsi pesante».
Al mattino dopo, quando arrivò al luogo della laguna indicato da lui, mio padre nella nebbia notò il suo solito profilo con i capelli tirati su e le spalle goffamente larghe ma, dietro di lui, vide quelli di altri due uomini (Allora sarò ucciso davvero questa volta?). A mio padre non poté che venire in mente quel terrore assurdo.

Non saprei se i racconti sul sig. Yakuza fatti da mio padre a tavola con la famiglia, riempendosi la bocca di pesce marinato alle alghe, fossero storie vere o una sua fantasia. Ma, dopo un po’, venne alla luce che quella canna da pesca era stata fatta da uno degli artigiani più importanti della zona e che il suo valore era più di 2000 euro, cosa che stupì anche mio padre.

Invece, quel giorno in cui fu come circondato dai tre uomini muscolosi, verso sera mio padre tornò di corsa a casa e aprì davanti a me un pacco avvolto con carta di giornale. C’erano due maschi di germano reale con il collo colorato di smeraldo vivido, senza la minima piuma rovinata, tanto che pareva quasi fossero rimasti addormentati. Per la caccia all’anitra con la rete, approfittando della volata all’alba, era necessaria una licenza particolare e facevano un controllo molto severo. E lui aveva detto tranquillamente a mio padre che, proprio per questo, era andato a cercare chi ne fosse in possesso.
Così spiegava la presenza degli altri due omaccioni.
«Ho sentito dire che in inverno a Kanazawa la carne d’anitra sia una vera squisitezza. Fratello grande, sarebbe un onore per me se la volesse gradire in dono!»

Così mio padre, col dono ricevuto, radunò i suoi amici di buona forchetta in una locanda a godersi la zuppa d’anitra. Era una sera in cui nevicava forte e mia madre e l’altra sorella rifiutarono di andarci. Così solo io saltai sulla macchina con lui. Davanti al pentolone della zuppa d’anitra, nel brodo di miso leggermente dolciastro, con l’aggiunta di zenzero e verdure appositamente tagliate grosse, le nostre chiacchiere non si esaurivano mai. Anche mio padre, con le guance rosse per il brodo bollente dell’anitra e per i bicchierini di saké che tracannava uno dopo l’altro, ne diceva di tutti i colori. Tuttavia, con gli amici, lui non si lasciò sfuggire nemmeno una parola sul suo nuovo amico e su dove avesse preso queste anitre. Al ritorno era felicissimo. Guidando la macchina cantava. Ma all’improvviso fece uno strano verso. O per la sua ubriachezza o per l’aria gelida di quella sera, il freno della macchina smise di funzionare e il volante andò fuori controllo e inevitabilmente stavamo andando a finire contro un muro.
Anch’io gridai di disperazione. La Jeep di mio padre, grazie al nostro benigno destino, venne frenata dalla neve ammucchiata dallo spartineve e si fermò un mezzo metro prima del muro.
Nonostante lo yakuza, l’unica a correre un rischio mortale ero stata io!

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