Evento dedicato all’olio extravergine d’oliva toscano di alta qualità
Parlare della biodiversità italiana richiede di spendere il giusto tempo anche sul tema dell’olio, un prodotto tanto identitario quanto rappresentativo della grande ricchezza agronomica nazionale.
Un patrimonio, quello olivicolo, oggi più che mai immerso in un contesto sfidante, con un futuro ancora tutto da scrivere. Se ne è discusso in occasione della prima edizione di Evo in Siena, evento dedicato all’olio extravergine d’oliva toscano di alta qualità, dalle Dop Terre di Siena, Chianti Classico, Seggiano e Lucca alla Igp Toscano, che l’Unione Provinciale Agricoltori di Siena ha organizzato per dare avvio al nuovo anno mettendo sul tavolo una serie di spunti per valorizzare il settore olivicolo nazionale.
L’Italia dell’olio, un Paese dalle mille sfaccettature
Esattamente come il vino, anche l’olio in Italia ha caratterizzato fortemente le aree in cui si è sviluppato, influenzandole e venendone a sua volta influenzato. Un rapporto mutuale favorito dall’ampia e storicizzata diffusione dell’olivo lungo tutta la penisola, che le geografie e le storie dei luoghi hanno trasformato in una biodiversità rappresentata da quasi 550 cultivar presenti. Un vero e proprio unicum a livello mondiale, specialmente se si pensa alla esigua estensione del nostro Paese lungo una lingua di terra incastonata tra le acque del Mar Mediterraneo, il mare nostrum che, nell’influenzare positivamente quell’orto a cielo aperto chiamato Italia, ne ha definito anche il modo di stare a tavola, dando il nome a una dieta che rappresenta non solo il caposaldo della tradizione gastronomica tricolore, ma un modello alimentare seguito in tutto il mondo.
Ma come si presenta oggi l’oliveto tricolore? Secondo le ultime elaborazioni di Ismea su dati Istat (2023), sono diverse le sue sfaccettature: con 1 milione e 135mila ettari di superficie olivicola, il Belpaese sale sul podio dei maggiori produttori su scala internazionale, concentrando le sue performance in specifiche regioni come la Puglia (con oltre il 30% delle superfici), seguita da Calabria (16%), Sicilia (14%), Toscana (8%), Lazio (7%) e poi Campania, Abruzzo, Sardegna, Umbria, Basilicata, Liguria, Molise, Marche, Veneto, Emilia-Romagna e Lombardia.
A incidere sulla produzione di olio d’oliva è però una moltitudine complessa di variabili, che cambiano da una zona all’altra rendendo ogni terroir unico nel suo genere. Prendendo ad esempio la Toscana – ma estendendo il modello anche ad altre regioni italiane – si va da un’olivicoltura definita “marginale”, con circa il 30% dell’oliveto regionale segnato da terreni con pendenze superiori al 25% e terrazzamenti spesso in stato di abbandono o semi-abbandono, importantissima da un punto di vista della difesa idrogeologica, a un’olivicoltura di tipo “tradizionale”, che nel 60% dei casi si estende su terreni con pendenze tra il 10 e il 25% e una densità inferiore alle 250 piante per ettaro. Solo una più piccola parte, infine, è dedicata all’olivicoltura “semi intensiva” e “intensiva”, con impianti meccanizzabili di oltre 250 p/ha.
Il futuro della produzione, tra opportunità e sfide
In un contesto come quello appena descritto, tra i punti di forza vi è senza dubbio la vocazione produttiva di molte zone italiane, sorretta dalla capacità di differenziare le produzioni non solo per varietà delle cultivar, ma anche per tecniche di lavorazione e qualità dei prodotti finali. A fare da contraltare arriva però la frammentazione, che ha messo in luce la diffusione di un’olivicoltura il più delle volte di sussistenza, con aziende di piccole dimensioni spesso impossibilitate a sostenere investimenti, limitate da uno scarso ricambio generazionale e difficoltà nel reperire manodopera. Il risultato sono oliveti spesso obsoleti e poco produttivi, che hanno reso indispensabile la realizzazione di nuovi impianti o reimpianti mirati, ma anche l’investimento in una maggiore ricerca in ambito genetico e fitoiatrico oltre alla spinta sul recupero e la cura degli oliveti di valenza ambientale e paesaggistica.
“Il proprietario dell’uliveto che cinge le mura di Monteriggioni dovrebbe essere aiutato non perché produce, ma perché curando quell’uliveto cura l’immagine stessa che la Toscana proietta nel mondo” ha spiegato il funzionario della Regione Toscana Gennaro Giliberti, evidenziando il valore non soltanto economico, ma anche identitario e culturale che l’olivo ha nella nostra società, con la chiara necessità di rimettere l’olio di qualità al centro della tavola, anche come alleato della salute umana. Un dato, quest’ultimo, non secondario se riferito a mercati dove si stanno affermando stili di vita sempre più orientati al benessere, nei quali l’EVO potrebbe avere ampi margini di crescita.
E così, mentre il vino definisce la sua nuova linea del Piave provando a contenere una regressione dei consumi su scala globale, l’olio extravergine di oliva oggi può guardare al futuro con ottimismo. O almeno potrebbe, poiché la condizione indispensabile - e per niente scontata - è che i consumatori possano comprendere l’importanza dell’EVO e siano pronti a dargli valore.
Il ruolo della comunicazione
Tra le sfide da affrontare nel prossimo futuro, una sarà senza dubbio quella alla comunicazione. Ad oggi il sistema di etichettatura dell’olio d’oliva e dell’olio EVO risulta ancora poco chiaro. Secondo dati Ismea, oltre il 90% dei consumatori dichiara di consumare olio italiano, ma il 10% non è a conoscenza delle differenze tra un olio d’oliva extravergine, vergine o lampante. La discriminante per chi sceglie un olio EVO di qualità è il prezzo, in un contesto che appare influenzato più dalle dinamiche di scaffale e di promozione della grande distribuzione organizzata che dalla trasparenza di informazione.
L’impegno delle istituzioni
Oltre a tracciare una fotografia del settore olivicolo nazionale, la prima edizione di EVO in Siena ha confermato una presa di coscienza sul tema dell’olio anche da parte delle istituzioni. Nel corso dell’evento, non a caso, il sottosegretario di Stato del Masaf Patrizio Giacomo La Pietra ha annunciato la creazione ufficiale di un tavolo per la filiera olivicola.
“La prima convocazione – ha spiegato La Pietra – sarà per presentare una bozza di piano olivicolo nazionale 2025-2030 e lo presenterà la politica. Quest’anno vogliamo partire da un piano di filiera che metta insieme politici e tecnici”.
Per il segretario, l’impegno sarà quello di lavorare su una strategia di valorizzazione del prodotto e sulla promozione di una maggior consapevolezza da parte del consumatore mentre, sul fronte produttivo, l’obiettivo sarà quello di creare nuovi impianti “che permettano di arrivare a un bilanciamento tra rendita e produzione. Impianti che devono avere come riferimento le cultivar italiane, dobbiamo garantire questa biodiversità. Ma senza pregiudiziali verso quelle che sono coltivazioni intensive”. Sul recupero degli oliveti abbandonati, per La Pietra servirà invece “fare un ragionamento insieme, per coniugare l’aspetto agricolo e quello ambientale e paesaggistico”.
Al fine di ridurre la parcellizzazione che caratterizza il territorio, una proposta è arrivata invece dalla vicepresidente della Regione Toscana, Stefania Saccardi, che ha spiegato: “Abbiamo attivato un contributo di 50mila euro per chi unisce le forze per prendersi cura delle superfici boschive – ha detto – Si potrebbe provare a pensare a qualcosa di simile per i vecchi oliveti abbandonati”.
“Alea iacta est”, verrebbe da dire. Oggi più che mai, il futuro dell’olio italiano appare come una pagina bianca che solo la sinergia tra produttori, tecnici e istituzioni potrà scrivere per dare il giusto riconoscimento a un comparto dal grande potenziale, rimasto fino ad oggi un po’ troppo in ombra.