Se i negozi di paese e di quartiere stanno scomparendo, vanno salvati – sostiene Massobrio – non solo per il loro valore commerciale, ma anche per il loro valore sociale e culturale

Dalla Dilve a Castelletto Merli si andava per la Monferrina, che è un pane a pasta dura essenziale con il salame e un bicchiere di Grignolino del Monferrato. Ma in quel negozietto che ti accoglieva con la scritta “Vogliamo il pane ma anche le rose”, mutuata dalle donne del tessile di Lawrence in sciopero nel 1912, ci entravi volentieri per il sorriso di Dilve Penna. Oggi quel negozio non c’è più, ma neppure U Re ad Abazia di Masio che faceva l’insalata russa più buona del mondo e la gente arrivava da lontano per averla sulle tavole delle feste. A Bergamo Alta ha chiuso il Fruttivendolo della Corsarola, dopo soli 8 anni di nuova gestione. E qui il problema riguarda affitti e lavori di ristrutturazione. Sommando questi casi, dietro ai quali ci sono storie e relazioni di quotidiana umanità, si arriva a 111 mila esercizi chiusi nell’ultimo decennio e ben 20 mila nel 2023.
Milano sembra fare eco a questo trend con 1.300 esercizi chiusi in 10 anni e 143 l’anno passato. Una città dove sta diventando una chimera trovare un fruttivendolo, che un tempo, insieme al panettiere, era il negozio di prossimità per antonomasia.

C’è poi la moria delle edicole che segna un mondo che cambia, trasformando i quartieri in località dormitorio da una parte oppure in luoghi della movida serale, giacché non sono i bar e la ristorazione a risentire di questa crisi.
Il Comune di Milano ha quindi preso iniziativa per evitare l’impoverimento dei quartieri, promettendo di sostenere l’economia di prossimità con un contributo di 15 milioni di euro in tre anni. Ed è certamente un bene, anche se le dinamiche di mercato alle quali sottostà un’impresa, grande o piccola che sia, dettano legge. Certo bisognerebbe evitare i rialzi indiscriminati dei canoni di locazione, come chiede Confcommercio, ma dall’altro lato c’è bisogno di uno sforzo di distinzione.
In cosa mi distinguo per far sì che la gente venga da me e non al discount? Al netto di ogni tipo di contributo, questa è la risposta che ogni esercente deve poter dare, come hanno fatto Dilve e U Re. Su questa sfida sono fiorite negli anni Ottanta le boutique del gusto, in molti casi sulle ceneri di quei negozi di alimentari che iniziavano a non sostenere la concorrenza dei discount. E resistono ancora oggi.
Tuttavia, va considerata la funzione sociale di un negozio di paese o di quartiere, la cui luce accesa rimane un deterrente ad attività illecite che spesso vengono svolte nell’ombra.
A Castelnuovo Magra, comune al confine fra Liguria e Toscana, avrebbe chiuso l’ultimo alimentari, “Dalla Dona”, ma gli abitanti non si sono dati pace ed hanno fatto una colletta che in un mese ha fruttato 13 mila euro per riaprire quel luogo (questa è la parola giusta). L’amministrazione ha poi messo mano a un bando, dacché la Regione Liguria, che è stata lungimirante, favorisce da anni contributi a fondo perduto per sostenere il commercio di prossimità soprattutto nei paesi di montagna. Che spesso hanno delle specialità distintive, originate da una ricetta o da un prodotto di quel territorio. Con queste opportunità potrebbe anche nascere quell’alleanza, che dieci anni fa fu lanciata a Milano (“L’Idea del cavolo”) fra i negozi di città e quelli di montagna. È anche questa la creatività che serve e che le associazioni di categoria e le amministrazioni hanno il dovere di favorire, davanti a un futuro segnato dai social che, al contrario del nome, rischiano di portare a quell’individualismo, che non ti fa più accorgere di cosa accade intorno. Per questo, quella dei negozi di prossimità, è una battaglia culturale.

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