Monferrato molto lontano

11.06.2015

Mi sedetti insieme agli altri sulla grande coperta distesa sul prato in fondo alla vigna e diedi un morso alla spessa cotoletta impanata, che riempiva il mio panino. Eravamo in pausa pranzo durante la vendemmia a Cascina Iuli, in Val Cerrina e io ero da poco arrivata dal Giappone per vivere in Italia.

In Monferrato, a fine settembre, anche se il sole picchiava ancora prepotentemente, si capiva che si trattava degli ultimi assalti e che, poco a poco, si stava allontanando dalla nostra terra. Asciugandomi con una mano il sudore dalla fronte, godevo di aver potuto condividere, insieme alla gente del posto, la lieve tristezza che accompagna la gioia festiva della vendemmia. Addentai un altro pezzo di soffice cotoletta preparata dalla mia Mariuccia e lo masticai con una certa soddisfazione. “Vuoi assaggiare?”; una signora anziana, seduta accanto a me, m’aveva offerto su un tocco di pane un acino di moscato e un pezzettino di gorgonzola.
Mio suocero mi raccontava spesso di questa bontà tipicamente monferrina. Il boccone sprigionò la salatura fresca e insieme piccante del formaggio insieme alla dolcezza del moscato.

Guido, mio suocero è un monferrino. Anche mio marito, quand’era ragazzino, trascorreva dai parenti a Casalino di Mombello Monferrato, piccola frazione solitaria su una collina solatia, qualche settimana in estate. Il primo posto dove mi portarono appena arrivata definitivamente in Italia fu il Monferrato e, la seconda volta, mi trovai già in vendemmia dagli amici di famiglia.
L’amore di mio suocero per le quattro case fra le colline dov’è nato è ancora molto forte. Si è trasferito a Biella con la famiglia appena dopo la guerra, quando non aveva ancora diciott’anni. La campagna allora non assicurava da vivere e, siccome la sua famiglia aveva un allevamento di bovini, sfruttarono la loro conoscenza delle carni per aprire una macelleria in un piccolo paese. Oltre alla carne, le sue specialità erano quelle del paese nativo. Il suo salame cotto, un insaccato suino molto gustoso con la carne tritata piuttosto grossolanamente, era rinomatissimo. Ma, purtroppo, io arrivai qui troppo tardi per assaggiarlo. Ogni tanto qualcuno, che era stato suo cliente, ancora me ne parla. Mia suocera aveva imparato a fare gli agnolotti alla monferrina e anche questi riscuotevano un buon successo. Faceva la pasta piuttosto spessa e anche il ripieno era lasciato un po’ croccante. Erano ravioli con un gusto genuino. Ormai sono in pensione da più di 15 anni e le loro preoccupazioni sono quasi sempre legate alla salute. Gli agnolotti li preparano a fine anno con una certa fatica e sono destinati quasi tutti come regalo di Natale ai vari medici che li hanno in cura. Come vino bevono solo Grignolino. Quando ci invitano a pranzo da loro e portiamo qualche bottiglia che ci piace, a volte anche grandi vini, mio suocero ne assaggia un sorso, guarda con un occhio solo il fondo del bicchiere e dice: “È buono, ma preferisco quello” e allunga la mano verso la solita bottiglia di Grignolino. L’unica eccezione la fa per il Barbacarlo di Maga Lino.

Il più grande divertimento che ha avuto nella sua vita era andare a caccia di lepri. Anche qui con un’etica rigorosa, alla monferrina. La lepre doveva essere cacciata in un certo modo, scovata dal suo cane e non sparava mai a un animale incontrato casualmente. Questa ritualità, sulle montagne biellesi dove di lepri ce n’è meno rispetto alla pianura, non riempiva il frigorifero, ma qualche cosa arrivava perché sparava benissimo. Lui ha passato mezzo secolo a Biella vivendo monferrinamente e ha sempre avuto questo amore per il suo paesino misto a una vena di nostalgia, il che può far tenerezza, se si considera che Casalino è a 60 Km di distanza e, volendo, potrebbe anche andarci tutti i giorni.
Mentre raccoglievamo grappoli di barbera grossi e felici ci arrivò, attraverso i sali e scendi delle colline, il rumore di uno sparo. Gli uomini che avevano perso la domenica di caccia per la vendemmia, lasciando fucile e segugi a casa, cominciarono ad agitarsi e a commentare. Le donne più giovani, soprattutto quelle venute dalla città, iniziarono l’usata polemica contro la caccia e i cacciatori. Gli uomini, abituati, se ne fregavano, continuando le loro chiacchiere. Quando le signore chiesero la mia opinione, cercando di coinvolgermi nel dibattito, le guardai ansiosamente e non trovai le parole. Devo confessare che vado pazza per le beccacce. Da quando lo zio di Fabrizio Iuli preparò un padellone di beccacce arrosto all’arancia e mi invitò a una cena di uomini cacciatori, sono stata sempre innamorata di quella carne il cui gusto fa ricordare un po’ il fegato.

Sono fortunati gli italiani che, pur avendo lasciato il loro paese come Guido, possono conservare l’amore non solo per la famiglia che ti aspetta, ma per il mondo intero che sta attorno. Anch’io sono nata in un piccolo paese del Giappone su cui avrei tante storie da raccontare, ma il paese che ho conosciuto è cambiato più in fretta del mio cuore e rimane solo nel ricordo. In Giappone i cambiamenti sono drastici e continui, 100 volte più veloci che in Italia: le sponde del fiume che conoscevo sono completamente cementificate, le risaie sono sempre meno e mi perdo nel labirinto delle nuove strade. Sapendo che non è più il paese che conosco, i miei passi se ne sono definitivamente allontanati. Percorrevo in auto le strade del Monferrato con Guido. Attraversando campi di grano appena arati, indicandomi i grossi pezzi di terra durissima, sollevati e lasciati intatti dall’aratro durante la lavorazione del terreno, lui mi chiese “Sai come si chiamano queste zolle in piemontese? Si chiamano UATU (non so come si scriva con precisione). Ricordatene.”

Padre Enzo Bianchi, priore della Comunità Monastica di Bose è di origine monferrina. Mi capitò una volta di conoscerlo proprio nel suo monastero biellese, fra il verde sfavillante di boschi e prati. Gli feci diverse domande sulla “bögna cauda”, così come ne parla nel suo libro “Pane di ieri”. Lui alla fine, incuriosito, mi chiese come facessi a conoscere così bene la tradizione piemontese della bagna cauda. Gli dissi che mio suocero è di origine “monfrin”. Il padre mi guardò fisso negli occhi e poi, dopo un piccolo sospiro, disse: “Io so quello che prova tuo suocero.” Queste sue brevi parole erano per me così profonde, penetravano nel cuore e facevano fiorire in mente paesaggi con vigne, dove c’è la gente con la schiena curva per il lavoro duro, ma con il sorriso sereno.

Mentre ero in giro per il Monferrato, fra campi di grano appena arati, mio marito mi chiese: “Sai come si dice zolla in Piemontese?” “Sì è UATU!”. La mia risposta pronta lo deluse. “Chi te l’ha insegnato? …”
Io sono fortunata. Da quando sono arrivata in Italia ho due paesini nel mio cuore.

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