Bra, Cheese 2025, stand della Sardegna. Siamo qui anche noi, impegnati in un pranzo di lavoro, circondati dal brusio delle chiacchiere dei visitatori e, soprattutto, dal profumo persistente del formaggio che, ovviamente, la fa da padrone. Una situazione che sembra non lasciare molto spazio all'attenzione, eppure, a riprova che il talento non ha bisogno di luoghi deputati per esprimersi, quasi all'improvviso la scena cambia. È quando dietro alla tavola infarinata si presenta lo chef Luca Floris che, con mani nervose e sguardo concentrato, si fa un rapido segno della croce prima di iniziare a impastare.
Un gesto rituale che affonda le sue radici nella sacralità più antica e che ci avverte che, davanti a noi, sta prendendo forma qualcosa di molto particolare. Si tratta dei
filindeu, i “fili di Dio”, un antico formato di pasta di cui non si conosce la ricetta scritta, ma solo la trasmissione orale, fatta di pazienza e di gesti tramandati. Semola, acqua e sale. Basta questo. Ma è nella trasformazione che avviene il prodigio. Floris tira l’impasto, lo stira, lo divide in fili finissimi, sempre più sottili, sempre più numerosi, fino a formare una trama di tre strati incrociati, come un tessuto sacro.
E più tardi ci racconterà che questi fili, cotti come per noi qui nel brodo di pecora e cosparsi di pecorino fresco, si servono ancora oggi ai pellegrini che raggiungono a piedi il santuario di San Francesco di Lula, nel cuore del Nuorese. Un cammino fisico e spirituale che culmina con una pietanza che nutre corpo e anima.
Oggi noi, guardando Floris all’opera, sudato e commosso, abbiamo compreso che i filindeu non si cucinano: si onorano. E ne abbiamo compreso anche la connessione profonda con una delle più grandi narratrici della Sardegna:
Grazia Deledda, Premio Nobel per la Letteratura nel 1926, di cui il prossimo anno ricorre il centenario. Che di questi luoghi e di questa cucina lasciò traccia nei suoi romanzi e nelle sue novelle con la stessa passione con cui li aveva amati e vissuti.
Dopo i filindeu (serviti in brodo, come da tradizione), il percorso del nostro pranzo è continuato con le
casadinas, piccoli tortini di pasta ripieni di formaggio fresco e zafferano, poi con il formaggio arrosto sul pane carasau, il gesto più rustico e autentico che si possa fare con un buon pecorino.
E infine si è concluso con la
sebadas, dolce chiusura che profuma di miele e di memoria.
Tutto accompagnato da un
Cannonau Grassìa 2021 di Mamoiada, con i suoi sentori di macchia mediterranea e fiori appassiti.
Il progetto — sostenuto dalla Regione Sardegna e dall’Agenzia Laore — fa parte del
“Menu dei Centenari”, ideato dai ristoratori Vincenzo Palimodde e Tonina Biscu. Nato all’interno degli studi dell’Associazione "Menu Deleddiano", propone un’idea semplice ma profonda: attraverso il cibo si possono trasmettere emozioni, storie, valori. Un messaggio che oggi, grazie anche al riconoscimento del valore della cultura materiale, ci appare più familiare, ma che ai tempi della Deledda era tutto meno che scontato. E che ci ricorda comunque, se mai ce lo fossimo dimenticato, come a volte un piatto possa raccontare più di quanto riescano a dire le parole.