Inizia con questo articolo la collaborazione al nostro Portale di Motoko Iwasaki. Da leggere attentamente

Che tesori hai cacciato?” È una domanda frequente fra gli amici turisti giapponesi in attesa dell’avviso d’imbarco, attraversando il corridoio con i negozi duty free dell’aeroporto di Malpensa. Ma una volta i “tesori” erano gli articoli griffati e non c’era nessuno dei miei connazionali che non ne avesse ai piedi almeno 4 o 5. Invece ora il significato di tesoro per i viaggiatori del Sol Levante non è più lo stesso e, spesso, non ha neppure una forma fisica.

Negli ultimi 10 anni il loro modo di viaggiare in Italia è cambiato in modo drastico: quasi tutti hanno già fatto un viaggio low-cost che visiti le principali città d’arte. Vogliono prenotare il secondo o il terzo viaggio verso una meta più originale, con pasti più ricercati, in un gruppo più piccolo e non è raro che il loro obiettivo sia scoprire la “vera” cultura enogastronomica. Anche se è obbligatorio in Giappone studiare la storia mondiale e l’arte occidentale, la conoscenza dei siti storici italiani è relativamente scarsa rispetto a quella degli europei che quella storia l’hanno vissuta; di conseguenza difficilmente una visita a Castel del Monte può diventare un bel ricordo di vita, ma la bontà di una burrata di Adria è diretta ed irresistibile. Tra l’altro in un posto come l’Italia, dove l’enogastronomia è considerata cultura alta, molti piccoli produttori hanno una storia che i Giapponesi amano ancor di più delle loro produzioni. Eh sì perché siamo un popolo ingenuamente romantico!

Circa 7 anni fa ho ricevuto inaspettatamente una telefonata da un tour operator di Tokyo che non aveva fino ad allora mai accettato le mie proposte di viaggio per i suoi clienti. Aveva proposto un itinerario enogastronomico in Italia per una scuola alberghiera privata chiedendo consigli a vari consorzi di promozione turistica, ma il proprietario l’aveva respinto dicendo di non portare proprio a lui un itinerario così banale. Per questo operator era un lavoro molto importante, da non perdere e, secondo lui, io avrei potuto costruire un itinerario originale. Preparandomi all’ennesimo no ci misi alcuni dei miei posti preferiti: un produttore di toma in mezzo ad un bosco del mio Biellese, un trifulau munfrin che di turisti non ne aveva mai visti, sua moglie ha insegnato a fare la pasta e persino il grande Teobaldo Cappellano di Barolo. E aggiunsi all’itinerario quel che sapevo della vita e della storia di questi produttori, partendo dal loro modo di lavorare fino alla personalità. Dopo qualche mese ricevetti una piccola lamentela da Teobaldo dicendo che gli era impossibile ricevere 50 persone perché nella sua cantina non ce ne stavano più di 10. In omaggio alla gioventù dei partecipanti decise di riceverci comunque, facendo due turni. > > Io non lo sapevo, ma in quel giorno di novembre della nostra visita stava già molto male. Nonostante ciò venne con la stampella e la sua gatta e dedicò tutto il tempo necessario a rispondere alla domande, a volte ingenue, di quei giovani che sognavano di diventare cuochi di cucina italiana, come fossero dei nipoti. I ragazzi, folgorati dall’umanità dimostrata da Teobaldo, abbracciarono strettamente quella bottiglia di Barolo chinato acquistata per tutto il viaggio fin davanti all’albergo di Torino.

Un giorno mi arrivò una mail da un gruppo di “ricercatori” enogastronomici che chiedeva di organizzare la visita ad un produttore di cardo gobbo. Per me era impossibile pensare a qualcun altro che non fosse nonno Bongiovanni. Il suo racconto della rinascita della coltivazione, tra l’altro sostenuta proprio da Paolo Massobrio con il Club Papillon, fu affascinante. Poi ci accompagnò nel suo orto a tirarli proprio fuori dalla terra. Finirono in una soave trattoria ad intingolare (forse l’ho inventato io) nella bagna cauda. All’oste che gli chiese un commento sulla bagna col cardo gobbo, il capo gruppo disse “di fronte ad una cultura così grande è quasi impossibile trovare una definizione con poche parole!”. E questo gruppo viene in Italia ogni due anni.

Una mattina di maggio giravo per la città di Biella con una turista giapponese e passammo davanti ad uno che preparava in strada un bel paiolo di polenta concia per una raccolta di beneficenza. Attirata dal profumo la turista mi chiese se potevamo fermarci a pranzare con un bel piatto insieme ai Biellesi. Avendo pagato le due porzioni, aspettavamo l’ora della distribuzione e, man mano che cresceva la folla davanti al banco, schiacciate dalle signore rotondette, aumentava l’aspettativa di assaporare il piatto. Quando il campanile del Duomo battè le 12, doveva iniziare la distribuzione. Stava per cominciare. Ma con un accordo implicito le signore che dovevano essere pronte a divorare la pietanza fumante, intonarono l’Ave Maria e alla fine un Padre benedisse il paiolo. Per gli Italiani potrebbe essere una scena abituale, ma la turista giapponese che, inaspettatamente, potè assistere, sotto il sole di maggio, all’aria fresca, ad una preghiera così sincera, mi disse con gli occhi umidi che non aveva mai partecipato a qualche cosa di così puro e innocente e intanto trangugiava voluttuosamente la polenta che di solito i Giapponesi trovano pesantissima.

In realtà trovo strano che noi ci si stupisca di queste cose. Il Giappone è il paese dove, insieme al buddhismo, coesiste anche lo shintoismo in cui ogni cosa ha un’anima. Da bambina, mia nonna mi diceva sempre che ogni chicco di riso ospita tre dei; quindi non va mai sprecato. Nella nostra parola “mottainai (non sprecare)” conosciuta ormai in tutto il mondo grazie al premio nobel Wangari Mathai, c’è tutto l’antico rispetto al cibo.

Oggi gli stessi Giapponesi stanno costruendo “fabbriche” di piante senza nessun contatto né con la terra, né con il sole, dove si coltiveranno verdure completamente senza batteri. Anche il governo sta sovvenzionando questo progetto. Certo che anche in Giappone le coltivazioni biologiche e biodinamiche sono in aumento notevole, ma quello che si trova al supermercato non ha nessun gusto. Così, quando vengono in Italia, si stupiscono dicendo che le verdure sono buonissime quasi ovunque. La frattura tra la razionalità della modernità ed il desiderio di qualche cosa che paia avere un cuore antico porta questi miei connazionali a vedere il loro tesoro in una bottiglia di vino prodotto da un italiano con sudore e fatica o in una zuppa semplice ma preparata con affetto e con anima.

In Giappone c’è una rivista di turismo che presenta ogni regione italiana attraverso piccoli produttori o ristoranti fuori dalle solite mete. Il direttore, al ritorno dal viaggio in Valle d’Aosta, riempì la sua valigia con un gigantesco cavolo verza, dicendomi “il cavolo verde smeraldo con un gusto così dolce è cento volte più bello di un diamante di Bulgari!” 

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