Non è tutto aceto balsamico ciò che luccica

L’articolo di ieri di Federico Francesco Ferrero sull’aceto che non c’è più, ha riacceso gli animi dei «ritornanti», ossia di quelli che non si capacitano che certe cose spariscano nel tempo. Ma siamo così sicuri che l’aceto sia scomparso? L’aceto quello aspro, per capirci, quello che mio padre alimentava in una damigiana posta in veranda. Lo faceva partendo dalla «madre»: e ci metteva il vino che avanzava nel bottiglione di Barbera, mentre in certe aree l’aceto prese piede perché il vino non riusciva bene. Persino don Bosco scrisse un trattatello su «come far sì che non inacidisca il Freisa», perché i parrocchiani del Basso Monferrato, 150 anni fa, avevano quel problema.

Dunque l’aceto una volta c’era in abbondanza: il mio vicino che lavorava la campagna, alla sera, si lavava con l’aceto, mentre sua moglie credo non abbia mai utilizzato detersivi, perché semplicemente c’era l’aceto per i panni. E per dissetarsi veramente, durante quei solleoni nei campi di grano? Un po’ d’acqua e un po’ di aceto. E che dire dei pescigatto marinati con l’aceto? O delle zucchine, persino delle uova fritte? Tutto veniva marinato, fino alla ghiottoneria dei peperoni: era un conservante l’aceto, ma anche un rinfrescante. Ed ora non c’è più? «Quando c’è crisi è il momento dell’aceto» - diceva Guido Ponti ai figli Cesare e Franco, che sono ancora nell’azienda di famiglia a Ghemme (il loro aceto di vino è uno dei pochi che ancora viene offerto). E difatti in questi anni c’è un ritorno dell’aceto, anche se non ha visibilità, perché i vettori del mangiare, ossia i ristoranti, hanno fatto la scelta modaiola dell’aceto balsamico (forza della pubblicità!). «Ma in cucina ce l’hanno – dice Franco Ponti – e l’aceto di vino oggi tiene botta: ha il 74% del mercato». Oibò, ma allora non è tutto balsamico quel che luccica? L’aceto balsamico, sia quello «tradizionale» dop di Modena e di Reggio, sia quello Igp, detiene solo il 12% dei consumi. Poi c’è quello di mele, che negli Anni 80 ha insidiato il vino, e oggi ha il 9%; il 5% sono aceti speciali.

Nella ristorazione l’aceto di vino ha cominciato a sparire verso la fine degli Anni '80, col paradosso che oggi devi fare una specifica richiesta, al bar come al ristorante. Nel '90 inizia il boom del balsamico, che in verità - concordo con Ferrero (ma anche Franco Ponti è dei nostri) - non è adatto per condire insalate fresche; va bene invece su carni, caci, frutta. Dunque al vertice c’è l’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena o di Reggio Emilia, dop, invecchiato almeno 12 o 25 anni. E la bottiglietta da 100 ml costa sugli 80 euro (molto meno il 12 anni). Segue l’Aceto Balsamico di Modena Igp, che deve maturare un minimo di due mesi oppure può avere la dicitura «invecchiato» se supera i 3 anni. Ma anche in Spagna producono un aceto balsamico, e la cosa si ingarbuglia ulteriormente se aggiungiamo i «condimenti balsamici» che troviamo in bustina al self service. L’aceto di vino, invece, dal basso sale in alto, tant’è che ci sono gli aceti di Barolo (quello di Cesare Giaccone di Albaretto della Torre è leggendario), oppure quelli ai vari gusti di Pojer e Sandri in Trentino, mentre in Alto Adige, a Meltina, Joseph e Marianne Reitener fanno una teoria di aceti ricercatissimi, accanto ai loro 8 brut d’alta quota.

Del resto le storie dei mercati alimentari hanno parabole strane: più un prodotto è di nicchia e costa, più si aprono le porte del «voglio ma non posso»: ossia riproduzioni fatte con vie corte. Con l’aceto balsamico è stato così, fino al deprezzamento di un prodotto che oggi mostra qualche flessione. L’aceto di vino invece, può solo migliorare. E lo stiamo aspettando.

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