Celebrata il 19 giugno a Sandigliano la festa dei 30 anni

Trent’anni di amicizia e di riconoscenza, questo è stato il contenuto della festa che si è tenuta a Sandigliano, domenica 19 giugno, con la partecipazione di 300 amici, fra produttori, imprenditori, soci del Club di Papillon giunti da tutta Italia (da Siracusa il più lontano)
ferdy.jpgNicolò e Nicole Quarteroni dell'Agriturismo Ferdy di Lenna (Bg) con la forma dedicata al compleanno di Papillonpersonaggi del mondo dello spettacolo (l’imitatore Claudio Lauretta, i cantautori Franco Fasano e Martino Chieffo, i musicisti Walter Muto, Carlo Pastori, Marcello Colò e Francesco De Chiara)paolo-marco-lauretta.jpgPaolo e Marco con l'imitatore Claudio Laurettafasano.jpg Il brindisi con il cantautore Franco FasanoNotevole il buffet delle cose buone d’Italia, accompagnati dal pane di montagna di Vulaiga e di Irene in Val Borbera, le lingue di Mario Fongo e il pane formato Carnera.
eugenio-pol.jpgEugenio Pol - Vulaiga e il suo pane di montagnaE poi le focacce gourmet preparate da Alessandro Bassa della pizzeria Tu di Villadossola con la farina Petra e il farro bio Spelta fino alla mitica paniscia di Piero Bertinotti del Pinocchio di Borgomanero realizzata con il Carnaroli Riso di Nori.
piero bertinotti e pizzaiolo.jpgPiero Bertinotti del Pinocchio di Borgomanero (a sin) con Alessandro Bassa della pizzeria Tu di VilladossolaIl clou della giornata è stata la torta realizzata dagli associati dell’Apei, la realtà che fa capo al maestro Iginio Massari che ha coordinato i lavori per allestire una torta pazzesca.
massari-parla.jpgIginio Massari presenta i pasticcieri presenti alla festaVogliamo citarli uno a uno: Marco Pedron, Chef Pasticcere di Cracco in Galleria di Milano, Marco Antoniazzi della Pasticceria Gelateria Antoniazzi di Bagnolo San Vito (MN), Fabrizio Galla della pasticceria Tre Colombe di San Sebastiano Po (TO), Eugenio Morrone de Il Cannolo Siciliano di Roma, Alessandro Servida della Pasticceria Alex di Pantigliate (MI), Francesco Elmi dell’omonima pasticceria di Bologna, Vincenzo Santoro della Pasticceria Martesana di Milano, Emanuele Valsecchi di Artelab di Lecco, Giovanni Erbusco della Pasticceria Roberto di Erbusco.pasticcieri.jpg
Iginio Massari (il primo a sin.) con i pasticcieri dell'ApeiSorpresa anche da parte di Luigi Galluppi che ha improvvisato un’asta con i cimeli della storia di Papillon, raccogliendo ben 140 euro in favore delle cuoche del Venezuela. cimelio.jpgUn "cimelio" della storia di Papillon messo all'asta paolo-con titolari cascina era.jpgPaolo con Eugenio e Monica di Cascina Era, la location dove si è svolta la festaC’è poi stato un dialogo con il giornalista Riccardo Bonacina che ci ha interpellato sui nostri 30 anni ed io e Marco Gatti abbiamo risposto, come si evince da questo nell’articolo scritto dal fondatore del periodico Vita.
Purtroppo i malanni di stagione non ci hanno permesso di avere con noi Paolo Frola e Luca Doninelli, che ci ha inviato un emozionante scritto che pubblichiamo in fondo a questa introduzione.
luca doninelli.jpgLo scrittore Luca DoninelliL’ultima sorpresa è il video con i 500 scatti dei nostri 30 anni e il saluto di Alejandro Marius dell’associazione Trabajo y Persona, con cui collaboriamo per l’adozione delle cuoche in Venezuela.
con gioachino palestro.jpgUn momento della festa con (da sin.) il pizzaiolo Alessandro Bassa, Gioachino Palestro e Piero Bertinotti con gli amici papillon.jpgBrindisi con gli amici di Papillon e il viceministro Gilberto Pichetto FratinIn fondo al testo tutti i link.
Buona visione
Link articolo Riccardo Bonacina 
Link video 30 anni Papillon
Link saluto Alejandro Marius
Link video della festa
staff.jpgLo staff del Club Papillon

Il testo scritto da Luca Doninelli

Per Paolo Massobrio

Trenta, quarant'anni fa la vita era più bella rispetto a oggi? Domandone. Abbassiamo il tiro.
Trenta, quarant'anni fa si mangiava meglio di oggi?
E' un domandone anche questo. E non c'è vera risposta.
Ci sono delle differenze, questo sì. Posso dire, azzardando un po', che a quel tempo nei ristoranti più straordinari si mangiava quello che, in fondo in fondo, potevamo trovare una o due volte l'anno anche in casa nostra, o in quella dei nonni. Solo, cucinato meglio, grazie all'arte di qualche grande chef.
Oggi non è più così, oggi si va in un ristorante stellato per la ragione opposta, per mangiare quello che nessuna nonna, per quanto brava in cucina, ci ha mai fato assaggiare. (E comunque, in tutti i casi: viva le nonne).
Trenta, quarant'anni fa cucinare voleva dire mettere insieme X ingredienti per dar vita a un sapore che non fosse la semplice somma degli ingredienti, ma sapesse produrre un sapore nuovo.
Trenta, quarant'anni fa il cibo "ben cotto" era segno di dignità, di innalzamento dallo stato selvaggio. In Africa la cottura dei cibi è tuttora segno di distinzione tra l'uomo e l'animale. La bistecca al sangue infatti è roba di noi borghesi borghesi, che nella parte non raccontabile, notturna della nostra vita sentiamo la nostalgia dei barbari che siamo stati, centinaia, migliaia di anni fa.
Oggi però anche su questo punto le cose sono un po' diverse. Oggi la grande cucina è arte, la cucina è scienza, e il dogma del crudo opposto al cotto, della fusione dei sapori non esiste più. Si può fare e non fare, si può bollire, si può cuocere a bassa temperatura, si può passare in padella. O anche niente. Il crudo e il cotto non sono più un discrimine di civiltà, ma soltanto due opzioni. Il campo della sperimentazione è più libero, il genio non ha bisogno di troppi dogmi.

Fin qui, tutto bene.

Corre obbligo, però, domandarsi quanto possa durare questa fortuna. Le cronache sono impietose, i numeri anche. La guerra in Ucraina e tante altre guerre sconosciute ai nostri media stanno affamando la parte più povera del mondo, producendo carestie e porzioni di mondo sempre più invivibili, inabitabili. Le risorse idriche a quanto pare non sono eterne, tanto che l'acqua è stata definita il petrolio del futuro. Il dissesto climatico è sotto gli occhi di tutti, a prescindere dall'allarmismo interessato di alcuni e dalla sottostima interessata di altri. Infine, voglio ricordare un dato piuttosto impressionante: quando io venni al mondo, 65 anni fa (quindi non un'eternità) la popolazione mondiale era di circa due miliardi di persone. Oggi siamo in otto miliardi. Dal tempo dei Beatles a oggi ci siamo quadruplicati.
Il cinema, che è la più popolare delle arti e più di altre misura la febbre del mondo, ci parla dei decenni passati come di un tempo in cui si stava meglio, e del futuro come di un tempo in cui, viceversa, si starà peggio. Non c'è dubbio: l'arte, in condizioni di normalità, è pessimista.

Personalmente, io non sono un nostalgico del passato. Tutte le volte che un vecchio compagno di scuola mi invita per qualche rimpatriata, io gentilmente declino. Odio gli incontri fatti di "ti ricordi quella volta che..." o di "ti vedi ancora con Tizio?....", " che fine ha fatto Caio?" o di "che begli anni erano quelli..."; odio certe facce che vedendomi si illuminano al ricordo di qualcosa che io viceversa non ricordo più, uno scherzo fatto ai professori, una figuraccia rimediata in pubblico, un'indigestione di cozze, un concertino improvvisato.
Però, quando penso alle difficoltà del presente e alle nubi che si addensano sul futuro, non posso non pensare a una frase che mia nonna diceva sempre, tutte le volte (cioè quasi sempre) in cui qualche ospite dell'ultimo momento si aggiungeva alla tavola già apparecchiata:
"Forza, venite, c'è posto per tutti!"
Siamo in otto miliardi? Venite, c'è posto per tutti. Al giusto allarme risponde un cuore aperto. Questa è la nostra cara Italia: un grido di allegria più misterioso del dolore, più profondo di ogni malinconia. Un antichissimo inno della Chiesa dice: Al nostro raduno concorde un ospite nuovo si aggiunga, e nessuno si scandalizzerà se io l'ho sempre associato a quel musical di Garinei & Giovannini che dice Aggiungi un posto a tavola, ché c'è un amico in più. Perché è la stessa, identica cosa. Qualcuno di voi dirà: nell'inno cattolico l'ospite nuovo è Dio - eh no, amici, no: qui vi sbagliate.
Immaginiamo un po' la scena.
Arriva l'ospite che fa:
"Mi fate un po' di posto?"
"Chi sei, sei Dio?"
"No, sono Mario Rossi"
"Allora fuori dalle scatole, noi aspettiamo Dio"
No, amici, non è così. Dio non fa prenotazioni, non presenta biglietti da visita, non fa telefonare dal suo segretario. Dio arriva, e basta. Dio arriva in incognito. Perciò il punto non è la certificazione d'identità dell'ospite: il punto è l'atto di ospitare, è l'apertura del cuore. Come dicevano le nostre nonne, le nostre bisnonne, povere e allegre:
"Forza, venite, c'è posto per tutti!"

Tra un passato che non rimpiango e un futuro che mette paura una sola è la speranza: il presente. Un presente così denso da dilatarsi. Così immagino l'eternità: un presente che si dilata, un istante che non finisce più.
Non è un pensiero mio. È un pensiero antico come il mondo. Ce lo suggerisce il Vangelo, con discrezione e ironia, quando racconta la moltiplicazione dei pani e dei pesci. Un episodio così bello nel suo semplice realismo - ricordate?, alla fine del pranzo furono portate via dodici ceste piene di pezzi di pane: nessuna menzione sui pesci, perché?, chi lo sa: forse perché i pesci furono mangiati tutti e non restò niente da portare via..
L'immagine più bella si trova però nell'Antico Testamento, nel Primo Libro dei Re, quando un uomo rude, che incuteva paura alla gente, di nome Elia si presenta a una povera vedova con un bambino, e le chiede da mangiare. Leggiamolo insieme:
Elia si alzò e andò a Zarepta. Entrato nella porta della città, ecco una vedova che raccoglieva la legna. La chiamò e le disse: «Prendimi un po’ d'acqua in un vaso perché io possa bere». Mentre quella andava a prenderla, le gridò: «Prendimi anche un pezzo di pane». Quella rispose: «Per la vita del Signore tuo Dio, non ho nulla di cotto, ma solo un pugno di farina nella giara e un po’ di olio nell'orcio; ora raccolgo due pezzi di legna, dopo andrò a cuocerla per me e per mio figlio: la mangeremo e poi moriremo». Elia le disse: «Non temere; su, fa come hai detto, ma prepara prima una piccola focaccia per me e portamela; quindi, ne preparerai per te e per tuo figlio, poiché dice il Signore: La farina della giara non si esaurirà e l'orcio dell'olio non si svuoterà finché il Signore non farà piovere sulla terra». Quella andò e fece come aveva detto Elia. Mangiarono lei, lui e il figlio di lei per diversi giorni. La farina della giara non venne meno e l'orcio dell'olio non diminuì.

La poesia forse più celebre di tutta la nostra letteratura parla di un giovane intellettuale marchigiano che, seduto davanti a una siepe, immagina l'infinito: quell'infinito che nella vita di tutti i giorni, tra i mille fastidi, le mille incomprensioni, le mille limitazioni della quotidianità lui non riesce a trovare. È uno come me, come noi. Per ottenere un po' di infinito, un po' di eternità deve trovare il posto giusto, dove la fantasia può spaziare - non solo: deve staccare, come tutti noi, che dopo un anno di lavoro sentiamo il bisogno di un momento tutto nostro, libero da ogni preoccupazione.
Il brano della Bibbia, però - Primo Libro dei Re - dice qualcosa di più. Qui per trovare l'infinito e l'eterno non c'è nessuna necessità di staccare, di andare altrove, di evadere dalla fastidiosa, limitante, soffocante vita quotidiana. Qui l'infinito entra di prepotenza dentro la vita di tutti i giorni, in una casetta povera, tra persone umili e affamate. L'eternità entra in casa, va in cucina e prende sede in una madia, in una dispensa, e vive la vita normale della casa e della dispensa di una persona povera: non porta caviale, porta farina e olio, come sempre: una farina normale, un olio normale, non necessariamente d.o.p., non necessariamente speciali.
Con una differenza, però: che questa farina e quest'olio non finiscono più. Li usi e la dispensa rimane piena.

Se penso a questi trent'anni di amicizia con Paolo e il Club di Papillon, agli amici che sono con noi e a quelli che non ci sono più - voglio ricordare, su tutti, Bruno Lauzi e il Conte Riccardo Riccardi, che mi hanno onorato della loro amicizia - se, dicevo, penso a tutto questo, l'immagine più bella che nasce in me non è quella di ristoranti fastosi, di chef geniali, di vini sublimi, ma quella di una farina e di un olio che non finiscono mai. Non tanti ricordi belli, ma la memoria - la memoria! - di qualcosa che non passa, di un presente che non passa. Ci sono scienziati che stanno cercando - sostenuti da grandi finanziamenti - il modo per non morire. Vivere mille anni... Pensate che noia. E com'è bello, invece, anche un piccolo istante vissuto con la certezza che quell'istante sarà per sempre. Succede, altroché se succede: che so, quando ci si innamora, o quando arriva un figlio, o un nipotino, o quando un'idea completamente nuova ci infiamma, o quando una nuova porta si apre - inaspettatamente - nel nostro futuro.
Il Club di Papillon per me è soprattutto questo: persone umane, che scommettono sulla loro umanità e si mettono insieme per fare qualcosa di umano. E qualche volta diventano perfino amici. Grazie di cuore.

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