Accoglienza gentile, porzioni abbondanti per questa trattoria del centro storico di Roma

Gettonata e ben frequentata, l'Asino d'Oro vede ai fornelli Lucio Sforza, chef umbro che esordì a Orvieto negli anni '90 con La Volpe e l'Uva e poi con L'asino d'Oro, locale che decise di trasferire a Roma nel 2009, prima in zona Prati Fiscali e infine nell'attuale posizione del pieno centro storico, il Rione Monti (in via del Boschetto 73 - tel. 06 48913832).

Viene citata su tutte le guide e ha nella semplicità e nella sostanza della proposta il suo punto di forza. Poi metteteci un personale gentile, che asseconda ogni richiesta, tranne quella di fare porzioni piccole (sigh). Il locale ha un arredamento fra l’essenziale e il moderno, con tavolini raccolti (e troppo vicini l’uno all’altro), alle pareti illustrazioni moderne. Ma il biglietto da visita interessante comincia a essere la carta dei vini, che è finalmente come l’abbiamo sempre pensata: il prezzo della bottiglia con accanto a quella del vino a bicchiere. È una carta con un numero non esagerato di referenze, e quelle giuste ci sono, per passare una gustosa serata.

Poi va detto che il menu offre una serie di piatti originali. Alcuni esempi? L’aringa sfumata con rape e cipolle marinate, la trippa alle spezie, la frittata di ricotta e castagne candite cotta al forno. Per noi un radioso piatto di fegatelli con uva rossa e Vinsanto, e un’insalata tiepida di galletto arrosto in agrodolce, piacevole.

Fra i primi saranno ottime le pappardelle con ragù bianco d’anatra, notevoli i tortelli solo di ricotta cotti nel vino con agnello al bujone. In alternativa c’erano rigatoni con rancetto al guanciale, passata di fagioli borlotti e mosciarelle. Meno verve sui secondi, con un coniglio alle erbe con lenticchie di Onano alla frantoiana, un poco disarmonico nell’insieme, ma anche asciutto; lo spezzatino di cinghiale dolceforte aveva anch’esso un equilibrio minato dal cioccolato e risultava appunto dolciastro. Altri piatti, filetto di maiale nella rete con vino cotto e cipolle bruciate, il peposo di manzo con zuppa di patate, il baccalà con cipolle e uvetta su passata di castagne, il capocollo arrostito con salsa del curato e purea di broccolo.

Tanti motivi per ritornare, perché in verità qui c’è una cucina proprio originale, che sicuramente merita un approfondimento. Non ci siamo fatti mancare neppure i fagioli ciavattoni all’uccelletto e la verza riccia ubriaca con uvetta, prima dei dolci: il tiramisù di pane (davvero buono), la bavarese di ricotta, latte di mandorla e pistacchi con lampone (un po’ pasticciata), la vellutata di fondente, caffè, liquirizia e peperoncino (un “voglio ma non posso”, forse un piatto da rivedere, dove non abbiamo capito fino in fondo dove voleva andare a parare un gusto).

Una nota interessante: a pranzo lo chef propone una formula che chiama "Il pranzetto", che varia giornalmente e che è composta da antipasto, primo e secondo prestabiliti, comprensivi di acqua e calice di vino a un prezzo contenutissimo, intorno ai 15 euro. In complesso è un racconto contento (lo racconterò agli amici).

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