A Roma al Pianostrada

Ero curioso di questo locale giovanile, “Pianostrada, laboratorio di cucina” di cui avevo sentito parlare e tutto sommato, nella rete, le recensioni sembravano positive. Il locale sta in una zona di Roma, dove quasi di fronte hai il ponte che ti porta a Trastevere (Via delle Zoccolette, 22 - tel. 0689572296). Un locale giovanile, con un ingresso già disseminato di tavolini e più avanti, centrale, il banco dove ti puoi sedere di fronte alla cucina. Dietro si apre uno spazio lounge, molto bello e intrigante, soprattutto per l’ora dell’aperitivo.

Nel pomeriggio arriva una telefonata alla mia segretaria (che ha prenotato col suo telefono quindi figura come un consumatore qualunque) per chiedere se confermiamo la prenotazione. La mia segretaria puntualizza che il signor tal dei tali arriverà alle 19,30 e che sarà solo. “Bene, allora lo facciamo mangiare al banco”. Io alle 19,30 mi presento e non c’è quell’affollamento che giustifica d’essere l’unico a mangiare al banco, su una sedia piuttosto scomoda stile trespolo. Di fronte a me una ragazza che impiatta piuttosto cupa, un ragazzo gentile che prende la comanda, una signora che dialoga coi suoi dipendenti, di affari loro. Ora, va bene l’informalità, ma se questa è la filosofia del banco, io ho provato un certo imbarazzo, quasi un sentirsi un numero, dove nessuno, tranne quello della comanda, non dico ti rivolge la parola, ma neppure lo sguardo.

Chiedo cos’hanno di vini a bicchiere e, pur aspettandomi qualcosa di più, decido per un Rosè del Mosnel. “Non l’abbiamo, c’è solo il brut” mi dice il ragazzo. Ora, posso capire a metà serata o alla fine, ma all’inizio del servizio che manchi il vino che è dichiarato in carta mi sembra curioso. E mi sento come quello al quale non merita stappare apposta la bottiglia: meglio finire quello che avevano già aperto. Posso sbagliarmi, ovviamente, ma un po’ mi sono sentito così. Perché se non hanno il Rosè, che comunque avrei pagato 9 euro a bicchiere, uno dice: “Guardi il Mosnel è finito, ma abbiamo il Rosè brut tal dei tali, le va bene lo stesso?”.

Dò un’occhiata alla carta dei vini, che ha molti nomi noti, ma quello che mi stupisce è la carta delle vivande, dove i prezzi dei piatti sono a dir poco esosi. Un esempio: il tonno di coniglio e carciofi costa 27 euro, lo spaghetto Benedetto Cavalieri con calamaretti baby costa 25, il vitello tonnato con roast di vitello e crudo di tonno pinne gialle va sui 28, la spigola all’acqua pazza è sui 30. Prezzi da ristorante gourmet... da assaggiare su un trespolo, vabbè. Ci sono anche il tagliere di formaggi Guffanti (a 20 euro) e la selezione dei salumi di Santoro di Cisternino (sempre a 20). La tartare di fassona (con spuma di bufala ed estratto di basilico, però) è sui 24.
Opto allora per il piatto più economico: fave e cicoria (18,50 euro). Quindi le polpettine di melanzane (molto buone) a 14 euro, con scamorza affumicata (erano tre e panciute), che mi arrivano in contemporanea (urca che fretta!). Mi faccio servire la loro focaccia (buona), mentre una selezione di pani arriva alla fine, quando ho finito il piatti e l’olio d’amuse bouche non c’è già più.
Alla fine il conto: 48 euro.
Che dire? Mi aspettavo qualcosa di diverso: nei prezzi, nell’accoglienza, mentre ho visto un personale piuttosto impersonale, che probabilmente vive un momento di successo, ma ha perso l’occasione di conquistare un cliente solitario: non porterà denari, ma un cliente è pur sempre una ricchezza. O no?

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