Le prugne umeboshi in Giappone sono messe sotto sale e si consumano durante il pasto, per accompagnare il riso

«Povere ragazzine!... Alla vostra età già mangiate queste cose. Spero che questo non vi condurrà ad una brutta fine».

Mio padre aveva detto così una volta a cena, guardando me e mia sorella; facevamo smorfie per l’acidità della prugna umeboshi che, non avendo trovato niente altro come accompagnamento, era stata messa nella ciotola del riso bianco appena cotto. Con queste parole mio padre intendeva dirci diverse cose; si preoccupava del fatto che noi non avessimo mai conosciuto la vera povertà, in cui ogni giorno si fa fatica a trovare qualcosa da mangiare e poi che fossimo troppo abituate al gusto del riso coltivato da lui, cosa che avrebbe potuto suscitare il desiderio di cibi sempre più squisiti e più lussuosi. Naturalmente la seconda derivava anche dalla convinzione personale di produrre un riso incomparabilmente buono.
Mi ci sarebbe voluto ancora molto tempo ed esperienze per poter capire quello che aveva provato ad esprimere mio padre. Da ragazzina non mi sarei mai immaginata che, proprio quell’acidità pungente dell’umeboshi fosse una guida alla consapevolezza della bontà del riso giapponese.

La prugna “Ume”, nome scientifico Prunus mume e Japanese apricot in inglese, è acida perché è ricca d’acido citrico. A Taiwan e in Cina la sua acidità viene corretta con zucchero e la si usa per i dolci. Credo che solo ai Giapponesi sia venuto in mente di metterle sotto sale per consumarle durante il pasto.
Sicuramente anche in Giappone anticamente le umeboshi venivano usate come medicina per la loro capacità disintossicante, antibatterica e di aiuto contro la stanchezza. L’acido citrico favorisce la secrezione di saliva, di conseguenza la digestione, abbassa la glicemia e migliora il funzionamento del fegato, il che aiuta a far passare l’ubriachezza.

A giugno, intorno alla stagione della pioggia in Giappone, si cominciano a produrre le umeboshi. A casa nostra era mio padre a raccogliere le prugne ume mature dal colore giallo. E io e la nonna staccavamo con le mani uno ad uno i fastidiosi peduncoli, mentre chiacchieravamo. Allora mia madre le lavava e le asciugava poi le sistemava in una giara con il sale e aspettava finché non ne fosse uscita l’acqua detta aceto di ume.

A fine luglio, quando il sole splende molto più in alto e io mi godevo le vacanze estive, uscendo fuori dal verde del bosco fitto con qualche cervo volante o qualche scarabeo catturato in una gabbietta, molto spesso vedevo mia madre in giardino che esponeva le umeboshi sul graticcio di bambù. Venivano messe sotto il sole durante la giornata e la sera le si rimetteva nella giara con l’aceto di ume. Il giorno dopo di nuovo e così per una settimana. Bastava guardare quel giallo delle prugne per farmi venire appetito, perché, finché avevano quel colore, psicologicamente le collegavo al gusto dolce della frutta che mi piaceva. Ma, dopo qualche giorno, mio padre raccoglieva del shiso rosso (erba aromatica paragonabile al basilico) e lo aggiungeva nella giara poi, quando il profumo e il rosso del shiso cominciavano a colorare il liquido madre, ci rimetteva le prugne. Così il rosso pian pianino penetrava nelle prugne fino a conferire loro quell’aspetto da “umeboshi” in tutto e per tutto.
«Guarda che bel rosso vivace hanno preso!» sorrise mia madre con soddisfazione. Mi veniva in mente l’acidità insopportabile e inghiottivo la saliva. Ma le foglie di shiso vanno aggiunte per dare colore e profumo quindi non c’entrano nulla con il gusto acido. Tuttavia, tutti i Giapponesi, quando vedono il rosso da umeboshi, immaginano quel gusto per reazione condizionata.

Quando l’umeboshi accompagna il riso bianco, evidenzia la dolcezza del riso. Questo perché l’acido citrico spinge a secernere la saliva in cui l’enzima amilasi decompone l’amido in maltosio, che esalta appunto la dolcezza. I Giapponesi, attraverso mille e mille ciotole di riso, imparano che il semplicissimo abbinamento del riso bianco con una prugna umeboshi provoca un minuscolo fenomeno scientifico che moltiplica la larghezza dello spettro del gusto del riso.

A marzo del 2011, dopo poche settimane dal devastante terremoto al nord del Giappone, arrivò in Piemonte una signora dal Giappone e dovetti accompagnarla per lavoro. Era una giovane donna in carriera ma, quando arrivai all’hotel al mattino, con gli occhi rossi per le lacrime, mi disse di aver appena ricevuto una telefonata dal Giappone e mi raccontò questa storia. In quel periodo i suoi amici, essendo venuti a conoscenza che l’autostrada distrutta che aveva interrotto il collegamento tra la zona terremotata e Tokyo, era stata ricostruita e riaperta, avevano deciso di preparare le polpette di riso dette onighiri quanto più fosse possibile per i terremotati e, fattene in grande quantità, partirono da Tokyo. «Portiamole al posto più lontano e più difficile da raggiungere». Così, con tutta la fatica che potete immaginare, arrivarono ad un paese sperduto della prefettura d’Iwate e volevano consegnarle ai rifugiati che dormivamo in una palestra comunale. Tutti avevano perso la loro casa e alcuni non sapevano che fine avesse fatto la famiglia. Avevano fame ed erano felici vedendo le polpette. Ma, subito dopo, gli amici di Tokyo si sentirono dire qualche cosa di inatteso.
«C’è una zona dove stanno facendo più fatica di noi. Vi preghiamo di portarle a loro». E non ne toccarono neanche una. Gli amici dovettero guidare la macchina ancora per qualche ora per una strada ancora più faticosa per portare finalmente gli onighiri. Ma anche la gente di questo posto disse loro la stessa cosa. «Sono veramente preziose. Ma ci sarà qualcuno che ne ha più bisogno di noi. È un momento difficile per tutti. Siete sicuri che solo noi possiamo avere questa fortuna?». Così nessuno di loro osava prenderne una. Gli amici insistettero e riuscirono a convincerli con fatica che potevano mangiarsele proprio loro. Dentro agli onighiri, finiti in mano a quelle persone, era appunto stato messo un pezzo di umeboshi che impedisce al riso di deperire con la sua forza antibatterica, reagisce lentamente nello stomaco di chi è stanco morto e placa la fame.

Da quando sono venuta qui in Italia a vivere, la mia bocca è sempre più abituata a mangiare cose buone e, per fortuna, non ho mai conosciuto la vera miseria. Ma, anche se un giorno dovesse arrivare una grande povertà nel mio mondo, non credo soffrirò di più perché ho imparato il gusto delle cose buone che non mi potrò più permettere. L’importante è, quando metto in bocca qualcosa di buono, conservare sempre l’umiltà per ringraziare della fortuna ricevuta e non sottovalutare mai la fatica di tutte le persone che mi hanno permesso questa gioia. Il ricordo di un buon sapore o di un’emozione è sempre bello quando mi ritorna e spero che possa diventare di incoraggiamento nei momenti di difficoltà.
Questa è la risposta che avrei dovuto dare allora a mio padre.

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