I funerali domani a Neive. Aveva 88 anni il patriarca del Barbaresco

Bruno Giacosa di Neive ci ha lasciati a 88 anni, nell’anno 2018 che ha dentro quelli che si dicono numeri perfetti. Già, come perfetti erano i suoi vini, che tutti gli appassionati hanno imparato a conoscere.

Giacosa era un uomo schivo, ma di grandi intuizioni. Non lo conobbi subito, quando ormai 33 anni fa entrai nel mondo del vino dalla porta dei piccoli produttori. Un po’ di timore lo avevo, ma intanto bevevo con voluttà, ogni volta che mi capitava, il suo brut. E dalla bontà del Giacosa brut, lo chiamavamo così, si capiva quanto questo vignaiolo piemontese tutto d’un pezzo guardasse alla Francia. E come i grandi francesi lui era un sarto, uno che acquistava le uve migliori e poi, come fosse davanti a un tessuto, le lavorava fino a giungere alla taglia perfetta. Questo scrissi sulla Stampa nella primavera dell’anno 2000, dopo che Francarlo Negro, oste in Neive, che aveva fondato la Cantina del Rondò, mi invitò con Bruno Giacosa in persona e la figlia Bruna accanto, ad una verticale di Barbaresco Santo Stefano. Ricordo ancora le annate: dal 1996 al 1970. Il 1990 (era il Vigneto Gallina, però) e il 1996, erano quelle dei miei figli. Del 1978 scrissi che aveva un’esigua ruvidità, ma poi era come il velluto che incontra la pelle. Del 1971 mi colpì la perfezione, con tutti i descrittori terziari del Barbaresco in fila e quella nota unica di buccia d’arancia.

Caso vuole che il giorno del mio compleanno, l’8 gennaio 2018, poche settimane fa, aprissi una sua Riserva del 1998, la stessa che re Juan Carlos bevve da Roscioli a Roma poco tempo fa. Ma la mia sapeva di tappo. Come la salute talvolta (questa è una frase del conte Riccardi, affettivamente legato a Neive e anche a Giacosa) che ha costretto Bruno su una carrozzella, negli ultimi dieci anni.

Aveva iniziato nel 1967 e nel 2004 aveva passato l’azienda nelle mani di Bruna, che ha fatto tesoro della sua testardaggine nel non inseguire le mode, quando in Langa sembrava che la panacea del vino fosse l’uso della barrique. A vedere l’evoluzione odierna, si può dire che ha vinto lui, figlio di una mamma che faceva la cuoca a Neive e fece da mangiare al conte Camillo Benso di Cavour quando venne ad inaugurare la ferrovia.

Di lui, i produttori di vino che lo hanno conosciuto (gli ultimi patriarchi), dicevano che non sbagliava una bottiglia. E così ieri sera ho aperto in suo onore un’altra bottiglia: un Barbaresco Santo Stefano del 2000, che è l’anno in cui ci conoscemmo. L’ho fatto pensando alle vette che ci ha fatto toccare, a quei vini, Barolo e Barbaresco, che evocavano la grandezza dei grandi bicchieri del mondo e la tradizione. Ed era perfetto, con dentro tutto ciò che ti puoi aspettare da un Barbaresco elegante: le note animali, i profumi terziari speziati in un equilibrio perfetto, col palato avvolto da una pienezza unica.

Lo ricordo ancora in quel marzo di 18 anni fa: uomo di poche parole, silente a capo tavola, mentre ogni tanto il sorriso gli tradiva un’emozione, che lui stesso leggeva nei nostri volti. Se n’è andato un grande piemontese, quasi in silenzio, come uno che ora si presenta al cospetto di Dio da scolaretto che ha fatto bene il suo compito, senza orgoglio, senza vantarsi, ma solo perché non poteva far altro che così, con quel suo naso che gli faceva intuire dal mosto come sarebbe stato il vino. Un solo necrologio oggi sulla Stampa (eppure quanti lo hanno conosciuto bevendo i suoi vini), segno anche questo della sua riservatezza.

I figli Bruna e Marina e il nipote Francesco annunciano che i funerali saranno mercoledì 24 gennaio alle 15 nella parrocchia di San Giuseppe, Borgonuovo, a Neive, il paese di Romano Levi, di Franco Piccinelli... e di Bruno Giacosa. Noi lo ricorderemo per sempre. Un abbraccio cara Bruna!

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