A leggere la rassegna stampa di ieri con articoli e titoli in prima pagina sull’affermazione di Massimo Bottura, al primo posto della classifica mondiale World’s 50 best, c’è un po’ di tutto. Edoardo Raspelli dalle colonne di Qn si chiede perché lui non sia fra i mille giurati, mentre Enzo Vizzari che gli dà 20/20 sulla Guida dell’Espresso esprime un sornione “l’avevo detto”. Ma sempre Vizzari ricorda che i criteri di quella classifica sono molto di pancia (tanto per stare in tema), ossia non c’è l’obbligo di dimostrare che si è stati nel locale che si vota. Pancia per pancia, nessuno ha scritto (a parte il sottoscritto su Avvenire) che in modo sbrigativo sono stati bocciati i cuochi televisivi.

Ma Bottura in realtà segna due vittorie che concettualmente hanno un grande significato: si afferma la cucina della “tradizione in evoluzione”, per usare le parole di Federico Francesco Ferrero sulla Stampa e sempre Vizzari su Repubblica dice una sacrosanta verità: «Massimo ha ora titolo – e possiede tutti i requisiti, dalle capacità al carisma – per aggregare intorno alla nostra cucina consensi e visibilità come mai in precedenza». E questo è un dato di fatto, di un cuoco umile per certi versi, che pesca nella memoria e guarda avanti, certo di un bagaglio di straordinari prodotti quali sono quelli italiani ed emiliani in particolare. Il secondo dato è che – classifica discutibile o meno – l’Italia vince, come fosse un mondiale di calcio o qualcosa di simile. Vince dando l’idea che Bottura è solo la punta di un iceberg (ma quanti ci sono in quella punta in verità) e quella della cucina italiana è una storia di qualità diffusa, che la critica gastronomica (qualcuno ha scritto la “severa critica italiana”, bah) fa emergere con poca generosità quando insegue soltanto le stelle, ossia il giudizio di una guida francofona.

Noi siamo la cucina delle osterie, anche, oppure dei nuovi giovani, di una generazione ancora diversa dai Bottura, dai Cracco e dagli Scabin, che ha un messaggio nuovo da raccontarci, di leggerezza e di salutismo. Andate sugli altipiani di Asiago, ad esempio, alla Tana Gourmet di Alessandro Degan o allo Stube Gourmet dell’Hotel Europa di Alessio Longhini, per rendervene conto. Nella mia guida, il Gatti Massobrio, Bottura figura al terzo posto fra gli chef che più ci hanno stupito. Il primo è stato Pino Cuttaia della Madia di Licata, (de gustibus), ma non ci siamo dimenticati di Vissani (al secondo posto) e di Nadia Santini del Pescatore di Canneto sull'Oglio che, saranno anche di altre generazioni, ma pure loro hanno avviato la storia della “tradizione in evoluzione”. E se Cracco e Cannavacciuolo sembrano tipi che fanno un altro mestiere (e quindi la pancia dei giudici non li ha presi in considerazione per via dell’esposizione televisiva, a quanto sembra) in verità esprimono le medesime tensioni, con una loro originalità.

Ricordo un pomeriggio di luglio sotto i portici di Modena, mentre bevevo un caffè vicino all’Osteria Giusti e un ragazzo con un bambino di fianco mi disse: «Mi piacerebbe venisse a visitare anche la mia cucina». Era Massimo Bottura. In autunno ci andai, con Andrea Voltolini, erano 12 anni fa e quando uscii dissi fra me che avevo trovato qualcosa di creativo che mi ricordava molto Vissani. Enrico, uno dei due ispettori che per la mia guida hanno provato Bottura quest’anno, mi confermano che il livello è sempre su quella punta dell’iceberg, spesso inarrivabile. Detto questo non rimane che gioire, perché la nuova cucina italiana che Bottura, Cracco e Scabin dichiararono quasi compiuta nel 2006 a Golosaria a Milano oggi è una realtà sotto gli occhi del mondo.

Un orgoglio che è destinato a fare scuola e anche a produrre economia, anche se al Governo (nessuna dichiarazione di politici, ieri, mi sembra assurdo!) pensano ancora che il cibo sia folklore. In Francia Hollande avrebbe fatto una dichiarazione piena di orgoglio. Da noi quasi quasi sembra che la cucina sia un divertissement di alcuni impallinati. Ma invece è l’Italia, ancora una volta scollata dalla politica. Detto questo, come ho chiosato ieri su Avvenire: ora non si facciano sconti, e la critica mangiona, che fa la cena e la festa del boia con l’impiccato, assuma il ruolo che le compete, se ne è capace. Ci sono ancora troppe ombre sul servizio in sala. Questo sarà il nostro prossimo step. E qui credo sia aureo un consiglio: per imparare qualcosa si guardino i nostri maestri, che saranno pure di generazioni lontano dai fenomeni attuali, ma sono pur sempre un patrimonio. W l’Italia, anche in cucina!

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