Nel racconto di Motoko Iwasaki il viaggio nel Grande Monastero d’Eihei-ji, tra le montagne vicine a Kyoto, alla scoperta della cucina dei monaci "Che nutre il cuore"

Già molto prima che suonasse la sveglia ci eravamo alzati ed avevamo ripiegato le lenzuola. Si udiva distante da qualche parte il campanellino che un giovane monaco, correndo, faceva suonare attraverso tutti i vari edifici del grande tempio.

Eravamo nel Grande Monastero d’Eihei-ji che si trova in mezzo alle montagne, circa 100 km a nord di Kyoto. È il centro originario dello Zazen, cioè la pratica della meditazione zen di scuola Sōto, fondato dal grande monaco Dōgen (si pronuncia Doghen) nel 1244.

Era fine novembre e le foglie degli alberi, numerosi qua e là tra gli antichi edifici, avevano raggiunto, pur in ritardo di due settimane, l’apice della coloritura. Ma, alle quattro del mattino, dopo aver passato una notte di vita monastica, uscendo fuori per le scale di collegamento fra i palazzi, era ancora notte buia e l’aria gelida cominciava ad abbarbicarsi ai miei piedi.

Sono nata e cresciuta in un piccolo paese sotto questo grande monastero. Il profumo nobile di bosco, che lascia il legno liscio del cipresso giapponese con cui è costruito, mi dava la carica ma, nello stesso tempo, provavo una profonda nostalgia.

Salendo su per il labirinto di scale infinite fino in cima, dove c’è la sala nominata “Hatto”, stava per cominciare la funzione del mattino che si chiama “Chouka”. Al centro è collocata una statua del budda Sho-kanzeon. Da lì partiva, a destra e a sinistra un’enorme pavimentazione in tatami, materassi di giunco, su cui erano radunati ben più di 100 monaci, inclusi gli “unsui”, i giovani monaci che erano entrati nel tempio come novizi. Tutti insieme recitavano un sutra e la loro voce, a tono bassissimo, sembrava uscire come ripiegata a strati per poi salire come un brivido lungo la schiena, anche a noi delle ultime file, per poi sparire verso l’alto soffitto della grande architettura. I recitanti facevano un inchino profondo finché toccasse la testa per terra, veniva consegnato ad ognuno in ordine il libretto dei sutra ed i giovani “unsui” lo manovravano velocemente, dall’apertura fino alla chiusura, unendo la recita a numerosi gesti rituali, senza il minimo movimento inutile e nemmeno un errore.  Nessun gesto sembrava abitudinario. Grazie alla massima concentrazione di ogni monaco aveva compimento una maestosa cerimonia, in cui dimorava una grande spiritualità. I miei piedi e le mani erano quasi congelati per il freddo, in contrasto il corpo era colmo di una vitalità nuova. Che solennità! Sono uscita fuori e ho visto il cielo che stava per schiarire. 

Qualche giorno prima avevamo avuto la fortuna di gustare la cucina dei monaci con la guida del Tenzo, capo cuoco del Monastero Eihei-ji. Ho preso fra le bacchette una carota tagliata a fette per metterla in bocca. La fetta, delicatamente smussata e levigata dalla cottura perfetta, è scivolata dentro la bocca. Dal gusto dolce, misto al vegetale intenso di questa verdura, usciva fuori ad un tratto una lieve sfumatura di zucchero aggiunto da mani umane o un’ombra di salatura da salsa di soia e, sarà stata la suggestione ma, ogni volta che masticavo qualche cosa, sembrava sprigionare proprio ciò che il mio corpo in quel momento desiderava. Nella melanzana veniva conservata apposta la sua amarezza, il riso bianco non lasciava all’esterno il minimo eccesso di acqua. Una perfezione di cottura mai vista! Tutti erano all’apparenza piatti molto semplici, invece, come ad un esame, mi trovavo di fronte ad una cucina dove ogni ingrediente ti interrogava sulla sua essenza.

Claudio, mio marito, per una volta seduto docilmente davanti a me ad assaggiare gli stessi piatti, ha alzato la testa e mi ha detto “Guarda che, fra tutte le cose preparate per noi su questo tavolo, non c’è nulla il cui gusto sia dovuto al caso!”

Nella fetta di carota non c’era nulla di diverso dal rito del mattino, dove i monaci si concentravano su ogni gesto della mano, su ogni passo del piede nella grande sala dell’Hatto.   

Dōgen, il fondatore del Monastero Eiheiji, andò in Cina a 24 anni per ricercare la verità nel buddhismo. Era fortemente convinto che, per poter guidare la gente, bisognasse studiare le parole del Budda o le prediche degli avi. Tuttavia alcuni monaci cinesi, dalle indubbie elevate virtù, gli chiesero, in modo semplice ma, proprio per questo, spietato, come potesse pensare di guidare la gente con parole copiate da qualcun altro e così le sue idee furono completamente ribaltate. Fu proprio un Tenzo, capo cuoco anziano di un tempio importante, incontrato sulla nave mentre era in attesa di permesso per lo sbarco sul grande continente, il primo a mettere in crisi le sue convinzioni. Invitato a cena da Dōgen, il vecchio Tenzo rifiutò perché all’indomani sarebbe toccato a lui cucinare. Allora il nostro gli chiese se non sarebbe stato meglio, per un anziano e saggio monaco come lui, fare lo zazen o studiare un sutra invece di praticare un lavoro fisico duro come cucinare. Il vecchio Tenzo scoppiò a ridere e la risposta fu decisa: “Lei non ha capito né in che cosa consista il praticare né il vero significato di ciò che intendono le parole scritte.”

Proprio perché il Maestro Dōgen possedeva veramente una fortissima volontà di ricercare la verità nel buddhismo, non trascurò la domanda provocatoriamente dura nascosta dietro le parole semplici di questo Tenzo e, con la sua umiltà, seppe venirne a capo. E dopo tanti anni di pratica in Cina si accorse che “la professione di Tenzo è venerabile quanto lo sono praticare lo zazen o studiare i sutra e che la pratica del buddhismo si può trovare nella vita quotidiana reale”. Così negli anni successivi scrisse le regole e lo spirito da praticare in cucina e nel pasto nel suo “Tenzo Kyokun (Istruzioni ad un cuoco zen)”.

Il pasto quotidiano dei monaci non ha una grande varietà come quello che abbiamo potuto provare noi come ospiti del Tenzo: di solito è molto umile, ad esempio riso integrale stracotto con conserva di verdure, tipo rapa secca sotto sale o prugna umeboshi dal sapore acidulo, accompagnato da qualche altro piatto di verdura stagionale. Tuttavia, sia durante la preparazione di quello più ricco che di quello più umile, nulla va mai trascurato.

La giornata di questo monastero comincia alle 3 e mezzo ma, i componenti della sezione del Tenzo si alzano all’una e mezza ogni mattina. E proprio fare in modo che sia pronto il pasto dopo la funzione del mattino, è il primo lavoro giornaliero di Miyoshi Ryokyu, attuale Maestro Tenzo, sia con l’intervento diretto che col controllo sul lavoro dei monaci a questo compito assegnati. Il Maestro Akita Shukou dell’Ufficio Comunicazione, che ci ha accompagnato nell’incontro con il Maestro Tenzo ci ha detto: “Dovete sapere che, per noi, il Maestro Tenzo è il "Tenzo Kyokun" vivente.”

Proprio in quel momento, dal fondo della grande cucina di Eihei-ji che si chiama “Daikuin”, il Maestro Tenzo Miyoshi, un ometto minuto in camicia bianca da cuoco,  è comparso camminando a passi corti. Mentre il Maestro Akita ci cercava un posto tranquillo per l’intervista, noi abbiamo cominciato a chiacchere all’ingresso della cucina, da cui lui controllava con occhio attento il lavoro dei giovani monaci.

“Sapete… i giovani, all’inizio, cercano delle idee inutili per poter fare bella figura. Mettiamo il caso che qualcuno di loro possa fare 100 tipi di piatti diversi in un’ora, probabilmente nessuno sarà buono. Quando invece, facendo cuocere pian piano per un’ora nella maniera giusta anche un piatto solo, questo potrà diventare buono. Proprio quando capirà la natura della bontà di questo piatto, allora nascerà per la prima volta in lui l’amore per cucinare e diventerà capace di concentrarsi a fare un lavoro solo, senza pensare ad altro. Anche a me dicevano ”  

Claudio gli ha chiesto quale sia la differenza fra la cucina di un cuoco di alto livello e la cucina zen di Eihei-ji. “Un cuoco, per poter realizzare un piatto, va a cercare degli ingredienti e cucina utilizzando massimamente le sue idee. Invece agli “unsui” a volte tocca mangiare tutti i giorni le stesse verdure. Quindi a noi non è sufficiente esprimere la stagionalità di sole quattro stagioni, ma dobbiamo anche saper percepire i minimi cambiamenti climatici di ogni giorno, percepire se il vento tira forte o si sente un’alta umidità e far nascere delle idee per non tediare chi mangia. Dobbiamo cucinare ringraziando la fortuna di poter cucinare qui in questo momento e speriamo di poter vedere il sorriso di chi mangia. Noi questo lo chiamiamo “Kishin”, che vuol dire “gioia”.

Noi dobbiamo, con la nostra cucina, dare ai monaci la sicurezza in modo che possano concentrarsi nella meditazione o nelle altre pratiche. Gli alimentiamo la voglia di affrontare anche il giorno dopo con coraggio. Insomma è uguale ad una madre quando prepara da mangiare ai suoi figli.”

Sono rimasta stupita. Io sono una che manovrava il coltello fin dalla scuola elementare, imitando ciò che facevano i più grandi e, quando cucino, spero anch’io di poter vedere un sorriso di soddisfazione sul viso dei miei ospiti, ma questa idea non m’è mai venuta. L’affetto da genitori, spiegato a noi dal Maestro Tenzo con parole semplici, si chiama “Roshin”.

“Poi per ultimo c’è la magnanimità che viene chiamata “Daishin”. Questa indica un grande cuore, come una grande montagna o un grande oceano, senza preconcetti, senza esaltazioni e condizionamenti. Una cucina preparata con questi tre ingredienti è la cucina zen. È vero che a noi non è permesso di usare proteine di derivazione animale o alimenti dall’aroma forte. Ma la cosa più importante è rispettare prima di tutto la vita degli ingredienti, poi la vita di chi prepara i piatti e, infine, anche di chi li mangia.”  Questi ultimi, all’inizio del pasto, ringraziano per il lavoro di chi lo ha preparato, si rendono conto del fatto che questo pasto permetterà loro di continuare a vivere e si augurano il compimento della ricerca del buddhismo e la salvezza del genere umano.

Tranquillamente il Maestro Tenzo Miyoshi ci ha detto, pur usando un termine inglese, “Per noi, sapete, cucinare significa avere una “comunication” con chi mangia”.

Ora devo dire sono bastate una fetta di carota e una ciotola di riso a riempirmi di interrogativi. Siccome per questo mio articolo, da pubblicare nel periodo di Natale, mi era venuta l’idea d’intervistare il Maestro Tenzo del Monastero di Eihei-ji, avevo anche il piccolo desiderio di collegare quella che sono oggi al mio passato che ho abbandonato in Giappone. Ma stando in piedi all’ingresso della grande cucina, che credevo di conoscere bene, ho toccato con mano l’insegnamento del Grande Maestro Dōgen, praticato da quasi ottocento anni, di giorno e di notte nel complesso di Eiheiji e sono entrata in contatto con la grande umanità del Maestro Tenzo Miyoshi, ottenuta proprio attraverso le durissime pratiche per anni e anni. Ho intravisto per un attimo un mondo di grande spiritualità e mi sono sentita piccolissima.

Al termine della nostra chiacchierata con sorriso da birichino Claudio ha chiesto al Maestro Tenzo una dedica sul libro “Tenzo Kyokun” tradotto in Italiano. Lui si è stupito e ha detto “devo scrivere io!?”, ma poi è sparito di corsa gioiosamente. "Mettere al lavoro la tua mente illuminata sforzandoti costantemente di servire pasti variati che siano appropriati al bisogno e all’occasione, e che permettano a tutti di praticare con il corpo e la mente senza il minimo ostacolo. Grande Monastero Eihei-ji - Tenzo Miyoshi Ryokyu". Queste parole dure, scritte con caratteri precisi ma belli, rivelano pienamente di quanto affetto sia capace il Maestro Tenzo. 

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